Ideologia e ambiente
Invasi da due milioni di cinghiali, ne importiamo il 90% della carne. Rileggere il "Discorso sulla caccia" di Ortega
È un argomento sempre trattato a livello di cronaca, facendo spallucce: mai nessuno che stimoli una riflessione seria su un problema serio per la salute delle persone e dell’ambiente, e pure degli animali stessi. In Italia abbiamo oltre due milioni di cinghiali, più un altro mezzo milione di ungulati vari. E, a causa più che altro dell’insipienza delle umane amministrazioni, producono incidenti stradali spesso mortali, annichiliscono la biodiversità. La natura li ha infatti programmati per nutrirsi di TUTTO, non solo di tuberi, piante, radici, ma anche di piccoli animali compresi rettili, nidiacei e, a volte, i cuccioli dei grossi mammiferi. Inevitabile che devastino le colture inutilmente difese da centinaia di km di recinzioni. Il danno economico è per tutti, non solo per gli agricoltori: l’“accoglienza ai cinghiali”, in Emilia Romagna, l’anno scorso è costata 1,5 mln di euro di soldi pubblici per risarcimenti e prevenzione.
Così, vi scioccherà apprendere che il 90% della selvaggina ungulata (soprattutto carne di cinghiale) che consumiamo sulle nostre tavole è IMPORTATA da Nuova Zelanda, Scozia, Nord America. Non basta: come riporta la rivista “Caccia & Tiro”, c’è voluto un anno e mezzo perché la Conferenza Stato-Regioni partorisse un documento ridicolmente insufficiente per la commercializzazione della selvaggina. In pratica, ogni cacciatore ora può cedere (sempre con i controlli sanitari di rito) al ristoratore o al macellaio non più di quattro cinghiali l’anno, invece di due. Il surplus eventuale deve passare attraverso un centro di lavorazione, con un giro burocratico infinito e del tutto svantaggioso.
Per non parlare dei regolamenti per il prelievo venatorio e la caccia di selezione: una goccia nel mare rispetto all'emergenza.
Eppure, in un periodo dove i Farinetti e i Petrini di turno sdottorano continuamente sul “km zero”, sullo “slow food“ e il cibo biologico, non si riesce a trasformare un problema grave in una risorsa alimentare di carne gratuita, sanissima, immediatamente disponibile e dalle straordinarie proprietà organolettiche. Il suo apporto nutrizionale, infatti, è il massimo che si possa desiderare: pochissimi grassi, ferro, tanti Omega 3, proteine magre, senza traccia di antibiotici od ormoni. Peraltro, oggi gli chef sanno preparare queste carni non solo nel classico ragù per pappardelle, ma anche in delicati carpacci o deliziose pietanze cotte a bassa temperatura.
In tanti si angustiano comprensibilmente per la “prigionia” degli animali d’allevamento: cosa c’è allora di più etico di un ungulato vissuto libero e felice per tutta la sua esistenza, che alla fine viene cacciato - selezione peraltro essenziale per mantenere il giusto equilibrio ambientale? Ognuno sulla caccia la pensa come crede, ma è indubbio che la propaganda militante e intimidatoria degli ultrà ambientalisti non contribuisce ad affrontare questioni di questo genere con il giusto equilibrio, soprattutto nell'interesse dell'ecosistema. Unica spes, la filosofia che, secondo Heidegger, è “l’atto creativo che dissolve le ideologie”. E allora ci permettiamo di consigliare, anche nelle scuole, il “Discorso sulla caccia”, (1948) del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, godibilissima introduzione a un voluminoso trattato venatorio del suo amico conte di Yebes.
Spiega Ortega che l’uomo, a causa della cronica difficoltà nello scovare gli animali da cacciare, ha da sempre imparato a limitare il proprio potere distruttivo, rinunciando ad esercitare tutta la supremazia sull’animale: si mette a imitare la natura, regredendo volontariamente per rientrare lealmente in essa. Per questo, fin dai tempi più antichi, i nobili disponevano di guardiacaccia, veri giardinieri della fauna selvatica, che ne impedivano il bracconaggio e lo sterminio.
Imperdibile anche un libro del 2012, “The mindful carnivor”, (casualmente) mai tradotto in italiano, del nutrizionista americano Tovar Cerulli. Da vegano-buddista-ecologista oltranzista, Cerulli ha compreso che quello venatorio è in questo senso un atto ecologico, ed è diventato cacciatore.
E se non dovesse bastare l’approccio umanistico, si ascolti il parere scientifico di organizzazioni ambientaliste non possedute dai demoni dell’emotività, come la Fondazione Una, o la Società italiana di Ecopatologia della Fauna (Sief).
Chissà che, parafrasando Battiato, non torni l’Era del cinghiale “in bianco”.