élite intellettuale
“Se non sei d’accordo con noi, vali zero”: la manipolazione del pensiero unico
Qualche tempo fa, su Libero, abbiamo dato risalto a un videomessaggio virale dell’artista Alberto Melari che spiega su quale meccanismo psicologico si regga gran parte del mercato dell’arte contemporanea: “Io, critico, decido cosa è artisticamente valido, ne scrivo con parole alate, eleganti, fumose ed espongo il manufatto in una mostra. Se tu, fruitore, pensi che quell’opera sia solo un pastrocchio, sei uno stupido e un ignorante”.
Così, temendo di essere esclusa da una presunta élite intellettuale, la maggioranza delle persone è portata ad apprezzare, spesso, manufatti del tutto insignificanti, per non dire di peggio.
Insieme alle tante congratulazioni, l’autore del video “I falsi artisti” si è attirato prevedibili insulti da tutto il mondo: “sciocco e incolto” sono le più comuni offese che, ovviamente, gli danno implicitamente ragione.
Se ci si riflette, lo stesso meccanismo manipolatorio viene utilizzato da decenni - e in modo sempre più massiccio – anche per supportare il cosiddetto “pensiero unico”, quello che Robert Hughes definiva «La cultura del piagnisteo, il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze».
Alle soglie dell’approvazione del disegno di legge più liberticida che sia stato concepito dal 1943, quello Zan-Scalfarotto-Boldrini sull’”omotransfobia”, vale la pena riesaminare la questione.
Forse per l’alto tasso di emotività che lo permea, il pensiero unico è molto violento e reattivo. Appena qualcuno si azzarda a sostenere un’idea leggermente contraria, gli si dà subito del fascista, nazista, maschilista, razzista, antieuropeista, populista, omofobo (appunto), islamofobo, xenofobo, o gli si toglie direttamente l’audio in trasmissione. Non si entra nel merito delle questioni, ma si oblitera la persona in una sottocategoria antropologica senza nemmeno ascoltarla. Provate sui social a criticare educatamente alcuni “diritti civili” o alcune “minoranze”: sarete fatti a pezzi, sempre che Facebook non vi abbia prima messo in quarantena.
Torna ancora, quindi, il meccanismo manipolatorio di scuola, arcinoto agli psicologi, chiamato “Sottomissione” che consiste nel fare leva sul bisogno di appartenenza ed accettazione. Viene stabilita un’idea comune, un pensiero di gruppo, per poi esigere che il manipolato si sottometta a ciò che decide il gruppo per sentirsi parte di esso, anziché esserne escluso o rifiutato.
Quando, poi, tali idee intercettano i più superficiali buoni sentimenti, quando offrono la scusa per riempirsi la bocca della parola “empatia”, o per spalmarsi sul viso la biacca del politicamente corretto, la manipolazione può anche lasciare il posto a una violenza psicologica selvaggia.
Una volta “sub-umanizzato” l’interlocutore, parte come niente l’insulto sull’aspetto fisico, sui figli, sul passato, sulla vita privata, sui propri cari (vivi e defunti), e fioccano gli auguri di morte violenta, meglio se a testa in giù. L’odio totale trova legittimazione poiché l’interlocutore non è più una persona, ma è diventato semplicemente un “…ista” o un “…ofobo”. Come tale, se ne possono fare polpette godendo della piacevole sensazione di aver fatto la cosa giusta. Tale convincimento, alla fine, si sedimenta nel comune sentire fino a far proporre leggi brutalmente censorie e liberticide, come il Ddl “contro l’omofobia” attualmente al vaglio della Commissione Giustizia della Camera.
Spesso il meccanismo manipolatorio nasce da una sindrome narcisistica: così come il critico d’arte chic ritiene di possedere maggiore cultura e sensibilità rispetto agli altri, così l’alfiere del pensiero unico ritiene di essere un individuo moralmente superiore. Questo spiega come mai gli appartenenti alla presunta élite culturale (giornalisti, accademici, artisti, scrittori) ne siano i primi e più compatti fautori: difendono, con esso, il rango sociale cui appartengono, o per nascita, o per faticosa ascesa.
A destra invece, o perché si è, talvolta, orgogliosamente “plebei” – quindi non ricattabili - o perché troppo strutturati per subire una manipolazione psicologica, si nota una dialettica più vivace e libera.
E’ pur vero che nel soffocante conformismo dei media, a volte, l’unico modo per farsi ascoltare è quello del turpiloquio esplosivo. Non è un caso che alcuni fra i principali leader “populisti” utilizzino toni accesi e provocatori: l’urlo liberatorio, la parolaccia, la ribellione “del monello contro il parruccone” che, in effetti, riscuotono simpatia (incomprensibilmente per gli avversari) presso larghe fasce della popolazione. La “rottura dello schema” attira audience e riesce a far filtrare qualche concetto intuitivo. Alla lunga, però, tale stile non paga perché ribadisce lo stereotipo sugli “…isti” e sugli “…ofobi” e fortifica la cittadella narcisistica dei benpensanti che rispondono: “Allora, è vero: siete dei volgaroni violenti e pericolosi!”. Basta, infatti, pochissimo per essere inchiodati sulla croce del bon ton.
Come difendersi, allora? In primis, riconoscere di essere vittima di un banale meccanismo manipolatorio che nasconde la fragilità razionale dell’aggressore. Importante è non farsi trascinare dall’ira, così come dai sensi di colpa o di inadeguatezza, non accettare attacchi personali, ma rimanere graniticamente sul piano della logica, incatenandovi l’avversario, senza mai trascendere.
Facile allora, che lo scontro venga concluso dallo stesso manipolatore, ormai disarmato, che si disimpegnerà con la frase tipica: “Ora scusa, ma non ho tempo da perdere con uno come te”. Il pensiero unico, infatti, ha i minuti contati.