L'editoriale
Confesso, scrivo questo articolo con un po’ di imbarazzo. Essendo rimasta la sola Cgil a dire male della riforma del mercato del lavoro, non vorrei che qualche lettore pensasse che ho voltato gabbana o che, in un momento di follia, voglia corteggiare Susanna Camusso. So che non è facile da spiegare, dato che tutti dicono bene delle nuove norme al punto da definirle una svolta epocale, ma a me la legge che cancella l’articolo 18 (o meglio: che si dice cancelli) non convince. Nonostante le difficoltà, mi provo a mettere in ordine i motivi che mi spingono a diffidare di tanta enfasi. Cominciamo dall’iperbole. Secondo la ministra Fornero finalmente saranno tutelati i lavoratori licenziati per motivi discriminatori, una norma di cui, per la responsabile del Welfare, finora godevano solo i dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti, quelle cioè in cui è in vigore l’articolo 18, mentre tutti gli altri erano alla mercé dei datori di lavoro. Con la riforma, operai e impiegati delle piccole imprese sarebbero liberati dal ricatto e dal sopruso: dunque, una rivoluzione. Peccato che sia una balla grossa come una casa. Già oggi i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti sono tutelati dai licenziamenti discriminatori: basta che si rivolgano al giudice invocando l’applicazione di una legge del 1990. Il ministro non la conosce? Possibile che abbia fatto la riforma del mercato del lavoro senza sapere le norme che lo regolano? Per il momento non è dato sapere se si tratti di esagerazione o ignoranza. Ma andiamo oltre. Si dice che d’ora in poi l’articolo 18 varrà solo per i licenziamenti discriminatori, mentre per quelli economici scatterà il risarcimento. In attesa di vedere nel dettaglio il testo della legge (e quindi se quanto dichiarato dal governo corrisponda poi nella forma), mi limito a una semplice domanda. Ma se il lavoratore non accetta la fine unilaterale del suo rapporto con l’azienda e si rivolge al giudice, che succede? Il magistrato si limita a ratificare il dispositivo aziendale senza batter ciglio, stabilendo la cifra da liquidare all’operaio o all’impiegato, oppure mette becco nella decisione, magari decidendo che non si tratta di licenziamento per motivi economici ma di risoluzione non consensuale dettata da motivi discriminatori? E dunque disponendo il reintegro? In tal caso saremmo punto e a capo. Cioè torneremmo a riaffidare ai tribunali delle questioni che dovrebbero essere risolte dalle parti. Il rischio è ancor più evidente per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari. Lasciando aperta la porta della possibilità di annullamento del provvedimento, si consente alle toghe un’ampia discrezionalità. Toccherà a loro decidere se il licenziamento è nullo per inesistenza del giustificato motivo o della giusta causa e dunque ordinare il pagamento di un risarcimento, oppure stabilire che non ci sono motivi soggettivi per mandare a casa il dipendente e dunque obbligare l’azienda a riprendersi il lavoratore. Fossimo a Francoforte o a Düsseldorf non avremmo dubbi che un dispositivo del genere potrebbe funzionare. Ma siamo in Italia e a giudicare sono i magistrati di Napoli e Milano, i quali forse non saranno le toghe rosse che negli anni Settanta pensavano di cambiare il mondo e risolvere le ingiustizie sociali con le loro sentenze, tuttavia restano in gran parte più sensibili alle ragioni degli operai che a quelle dei datori di lavoro. Perciò a me pare che, uscito dalla porta, l’articolo 18 si appresti a rientrare dalla finestra. Se l’obiettivo del governo era di dare una certezza all’impresa la quale, una volta deciso di liberarsi di un collaboratore, lo potesse fare senza troppi problemi, mettendo in conto di pagare un indennizzo, mi sento di dire che non è stato raggiunto. L’alea di entrare in un processo per discutere di un licenziamento per motivi economici e uscirne con una sentenza sfavorevole per motivi discriminatori c’è ed è alta. Si è cioè persa un’occasione, scrivendo norme complicate invece di una semplice: chiunque vuole licenziare un fannullone lo può fare, il giudice valuterà se debba essere corrisposto o meno l’indennizzo (fisso, ovviamente). Tuttavia nella riforma c’è anche di peggio. Da quel che è stato detto la nuova legge vale per tutti, cioè anche per le piccole imprese, quelle per intenderci che hanno meno di quindici dipendenti. Le quali oggi sono libere di mandare a casa chi vogliono, a cominciare da chi non lavora. A patto naturalmente che paghino le legittime competenze, le quali nel caso di un dipendente con meno di dieci anni di anzianità credo corrispondano a sei mensilità. Domani, quando cioè la nuova legge sarà in funzione, aziende con tre o quattro dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo, potrebbero trovarsi a pagare dalle quindici alle 27 mensilità. Una cifra che stenderebbe chiunque, immaginate nel caso di un’impresa artigianale. Per molte di queste sarebbe la fine. Altro che crescita: qui l’unica crescita che si rischia è quella dei fallimenti. Non entriamo per ora sulle altre parti della riforma, quelle che riguardano l’assicurazione per l’impiego (Aspi) e il giro di vite su contratti a termine e partite Iva: di questo si occupano altri colleghi. Mi limito solo a segnalare un tweet di Vincenzo Novari, il manager della compagnia telefonica “3”: «Brutte notizie per giovani e precari. Leggendo le ipotesi di riforma dell’articolo 18 non posso lasciare a casa i fannulloni e prendere loro». Più chiaro di così. PS. Pare che la riforma si applichi solo ai privati e salvi il pubblico impiego. Una beffa in più. di Maurizio Belpietro