L'editoriale
Ieri il Sole 24 Ore aveva in prima pagina una notizia che non si leggeva su nessun altro giornale. La British gas lascia l’Italia, rinunciando a costruire a Brindisi un rigassificatore, opera che al gruppo inglese è già costata 250 milioni di euro senza aver potuto vedere un tubo. Perché Bg se ne va? L’addio è la conseguenza di undici anni di ritardi. È dal novembre del 2001 che la filiale italiana chiede il via libera per aprire un impianto da sei milioni di tonnellate l’anno di gas, equivalenti a otto miliardi di metri cubi di gas da immettere ogni anno nella rete. Ma in undici anni nessun governo, nessuna amministrazione comunale ha trovato il tempo di firmare le carte che autorizzano la costruzione del rigassificatore. Risultato: l’Italia perde un investimento da 800 milioni, sfumano circa un migliaio di posti di lavoro e il Paese rinuncia a una fornitura pari al dieci per cento del consumo nazionale. Tutto questo mentre Mario Monti e i suoi ministri promettono maggiore concorrenza proprio nel settore energetico. Invece di aumentare il numero degli operatori, in modo da ottenere prezzi più bassi e una più alta efficienza, da noi i concorrenti si fanno scappare. British gas naturalmente se ne farà una ragione. Essendo una multinazionale sposterà i suoi interessi altrove. Anzi, li ha già spostati, perché nel medesimo anno in cui progettava di aprire un impianto a Brindisi, il gruppo aveva messo gli occhi anche sul Galles. Con la differenza che in patria le autorizzazioni sono giunte a tempo di record e il rigassificatore britannico è già in funzione da anni. La notizia pubblicata dal quotidiano della Confindustria fa il paio con un’altra che mi ha raccontato lunedì Giorgio Squinzi, uno dei candidati a sostituire Emma Marcegaglia al vertice dell’associazione degli imprenditori. Squinzi è il patron di Mapei, un gigante da 2 miliardi di fatturato, che da Bergamo si è espanso in tutto il mondo, producendo adesivi e collanti per l’industria e l’edilizia. Tra le aziende che controlla c’è anche Vinavil, la colla liquida usata da generazioni di italiani, e con la materia prima con cui si fa il mastice bianco si fa anche la base per il chewing gum, perché il polimero è lo stesso. Qualche anno fa, la Wringley, multinazionale americana specializzata in gomme da masticare, prevedendo una forte espansione del mercato, bussò alla porta di Mapei, chiedendo la disponibilità a produrre un quantitativo superiore di elastomeri per chewing gum. La fornitura, il cui valore sfiorava gli 80 milioni di euro, avrebbe però dovuto essere pronta nel giro di un paio d’anni. Squinzi ovviamente si mise al lavoro, presentando un progetto per ingrandire la fabbrica e comprare nuovi macchinari: con un tale ordine ne valeva la pena. Peccato che per ottenere la Via, cioè la valutazione d’impatto ambientale, documento indispensabile prima ancora di mettere un mattone, ci siano voluti quasi tre anni. Risultato: gli americani si sono rivolti ai tedeschi, i quali sono stati ben lieti di soddisfare la richiesta nei tempi previsti. Aggiungo poi un’altra notizia che mi è capitato di sentire sempre in questi giorni. A Casole d’Elsa, in Toscana, c’è la Pramac, un’azienda fondata 45 anni anni fa dalla famiglia Campinoti. L’impresa è specializzata nella produzione di generatori, impianti fotovoltaici ed eolici: con lo sviluppo delle energie alternative va a gonfie vele. Tanto che qualche anno fa ha progettato di espandersi. E qui son cominciati i dolori, perché per ingrandirsi ha dovuto aspettare autorizzazioni e timbri d’ogni genere. Così, dopo aver pazientato a lungo, la società si è decisa a traslocare. Ma non in un altro comune del circondario, bensì direttamente in Svizzera, dove pare che gli amministratori locali facciano carte false pur di attirare industriali. Risultato: 100 milioni di euro volati nella vicina Confederazione e 230 posti di lavoro persi. Le tre storie credo si commentino da sole. Monti ha un bel dire che ora è il momento della crescita, ma finora qui crescono solo le scartoffie, pratiche che invece di rilanciare le aziende rischiano di farle affogare. Documenti su documenti per stabilire se un impianto è compatibile con l’ambiente. Altri da consegnare ogni sei mesi che attestino il pedigree giusto e senza ascendenti mafiosi. Riunioni con il Comune, con la conferenza dei servizi, con ogni tipo di burocrate. Una via crucis che ammazzerebbe qualsiasi impresa, figurarsi le nostre che sono già costrette a sobbarcarsi la rigidità del costo del lavoro e la penuria di finanziamenti bancari. Prendendo esempio dai casi che abbiamo qui raccontato, se Monti vuole davvero passare alla storia come l’uomo che ha salvato l’economia italiana, ha un solo modo. Fare un gran falò. Non delle vanità, ma delle inutilità. Che, nella legislazione italiana, sono la gran parte. Maurizio Belpietro maurizio.belpietro@liberoquotidiano.it