L'editoriale
A vent’anni si è stupidi davvero, parola del Vate della canzone impegnata, Francesco Guccini, il quale già nel 1978 spiegava con la chitarra in mano quante balle si hanno in testa a quell’età. Chi più, chi meno ci sono passati in molti. Presi da un senso di onnipotenza e da un desiderio di cambiare il mondo, spesso si sono commesse fesserie. Quando imperversava la «Meglio gioventù» e il sogno di molti giovanotti di buona famiglia prevedeva la rivoluzione, le cavolate poi erano all’ordine del giorno. In qualche caso si trattò di marachelle rimediabili, come i cortei di protesta e le scritte sui muri; in altri, purtroppo, l’unico rimedio fu una lapide. È ciò che accadde nella primavera del 1977 a Milano, quando un gruppo di appartenenti ai collettivi studenteschi e all’area dell’autonomia si scontrò in pieno centro con la polizia. In quei giorni di fuoco c’era già scappato il morto. Giorgiana Masi, una studentessa di 19 anni, il 12 di maggio, durante una manifestazione a Roma, venne colpita da un proiettile. In risposta, i gruppi dell’extra sinistra si dettero appuntamento nella città lombarda due giorni dopo. Obiettivo: protestare contro la repressione creando scaramucce con gli agenti nei dintorni del carcere di San Vittore. All’appuntamento un gruppo di ragazzi poco più che ventenni si presentò armato di pistole e molotov. Della combriccola che pianificò lo scontro facevano parte alcuni che poi divennero tristemente famosi. Come Marco Barbone, colui che un paio d’anni dopo assassinò a sangue freddo il giornalista Walter Tobagi, e Corrado Alunni, un ex operaio che aveva già militato nelle Brigate rosse, il quale per l’occasione mise a disposizione l’intero suo arsenale, vale a dire un paio di revolver e un fucile a canne mozze. Con questo armamento i compagni che sbagliavano scesero in piazza, preparandosi oltre che a menar le mani anche a usarle per fare tiro a segno. Cosa che regolarmente accadde. Appena la banda incontrò la celere schierata in via De Amicis per impedire che il corteo raggiungesse la prigione, qualcuno diede l’ordine di sparare. Alcuni colpi non andarono a segno. Uno colpì alla testa il vicebrigadiere Antonio Custra, un ragazzo della stessa età del suo assassino, Mario Ferrandi. Il poliziotto, immigrato del Sud, morì quasi subito, senza riprendere conoscenza e senza vedere la figlia che sarebbe nata mesi dopo. L’omicidio, immortalato dal clic di un fotografo, finì sulle prime pagine di tutti i giornali. L’obiettivo infatti riprese il terrorista nell’atto di sparare, un istante prima che partisse il colpo mortale. Perché rievoco una vicenda vecchia di trentacinque anni, che i processi si sono già incaricati di chiarire condannando i colpevoli e dunque dovrebbe essere consegnata alla storia di questo Paese? La ragione è semplice. Tra i giovanotti che quella mattina scesero in piazza armati, pronti a far fuoco contro la polizia, ce n’era uno di nome Maurizio Azzolini. Una foto lo ritrae in pieno centro mentre a braccia unite e con il passamontagna spara agli uomini della Celere. L’arma, una Beretta 7,65, era stata acquistata qualche giorno prima al mercato nero di Porta Ticinese. Per fortuna i proiettili non andarono a segno e dunque Azzolini è potuto uscire indenne dall’inchiesta sulla morte di Custra e rifarsi una vita, dimenticando gli errori di gioventù. Chi però non ha dimenticato è Carmine Abagnale, un vicebrigadiere della polizia di Stato amico dell’agente ucciso. Al pari del collega, Abagnale il 14 maggio del 1977 era in via De Amicis e ancora si ricorda i proiettili sparati contro chi come lui indossava una divisa. Oggi Abagnale fa il consigliere comunale a Milano e qualche giorno fa ha avuto la ventura di incontrare proprio Azzolini a Palazzo Marino. Non in fila per un certificato o una pratica. L’ex sparatore fa parte dello staff del vicesindaco Maria Grazia Guida. Anzi, ne è il capo di gabinetto, ossia la persona fidata che tratta per la numero due della giunta milanese le questioni più delicate. Azzolini ovviamente non ha conti in sospeso con la giustizia e dunque può fare ciò che vuole, magari anche invocare il diritto all’oblio come ha fatto recentemente un ex militante del partito combattente. Ciò nonostante, Abagnale non l’ha mandata giù e, presa carta e penna, ha scritto al vicesindaco, ricordandole che mentre lui difendeva le istituzioni democratiche «il suo capo di gabinetto mi sparava addosso». Come abbiamo detto, a vent’anni si è stupidi davvero e dunque si possono commettere errori anche gravi come quello di andare in giro a sparare ai poliziotti. Tuttavia anche i crimini più gravi si scontano e una volta pagato il proprio debito si ha diritto a rifarsi una vita. Così va nei Paesi civili e così ci si deve attenere anche nel caso in questione. Al di là dei profili giudiziari o penali, che in questo caso non ci sono, ne esistono però altri di ordine morale e politico. Non si pretende che nessuno espii una colpa di trentacinque anni fa seppellendosi vivo, né che si rinchiuda in convento, ma per decenza si spera che rinunci alla ribalta. Chi sparava per abbattere lo Stato democratico dalle quelle stesse istituzioni democratiche dovrebbe tenersi alla larga, evitando di stare sotto i riflettori e facendosi dimenticare. Altrimenti per molte delle vittime di quegli anni, oltre al danno, c’è la beffa. Anni fa feci i conti in tasca a un ex di Prima Linea divenuto parlamentare. Oltre a godere ogni mese di 15 mila euro, aveva la segretaria e l’auto blu. Alla vedova dell’agente ucciso in uno scontro a fuoco cui lui aveva partecipato e per il quale era stato condannato invece andavano solo 750 euro. All’epoca mi domandai se valeva la pena di morire per difendere uno Stato che premia i terroristi e dimentica le vittime. Oggi mi rifaccio la domanda. di Maurizio Belpietro