L'editoriale

Giulio Bucchi

Ho conosciuto la ministra della Giustizia Paola Severino e, al primo approccio, mi è parsa una persona seria e competente. Per questo mi viene naturale consigliarle di stare alla larga dalla questione della responsabilità civile dei magistrati: non è pane per i suoi denti. La difesa dell’intangibilità patrimoniale delle toghe è largamente impopolare fra gli italiani e lei, la Guardasigilli, rischia di uscirne ammaccata. Come giustificare l’impunibilità di pm che si sono dimenticati in cella gli indagati, anche quando questi dovevano essere scarcerati? Come perdonare un sostituto procuratore che ha fatto arrestare persone in assenza di prove o, addirittura, con prove a discarico? Per questi cosiddetti errori, lo Stato italiano ha sborsato in nove anni, da gennaio 2001 a febbraio 2010, la somma record di 423 milioni di euro, solo diciotto dei quali dovuti a un vero e proprio sbaglio dei giudici. Tutto il resto è conseguenza di una custodia cautelare in carcere, ossia di arresti preventivi cui sono state sottoposte persone non ancora condannate. Manette decise dai pm e sottoposte  al vaglio di giudici spesso compiacenti o distratti (recentemente è stato beccato un gip che aveva fatto copia e incolla della richiesta della Procura, senza neppure darsi pena di riscrivere, ma usando la sola fotocopiatrice). Di questi  errori o dimenticanze non viene mai chiesto conto al magistrato, il quale anzi, pur avendo messo in galera più di un innocente, prosegue imperterrito la propria carriera, riuscendo anche ad arrivare ai vertici della magistratura. Che questo sia un nodo da sciogliere è noto, così come è risaputo ciò che pensano gli italiani al riguardo: vent’anni fa la maggioranza ha votato il referendum radicale a favore della responsabilità civile dei magistrati, chiedendo che anche per loro valesse il principio di chi sbaglia paga . Eppure finora, nonostante il vento in poppa dell’opinione pubblica, nessun governo e men che meno il Parlamento, aveva trovato la forza, o la voglia, di approvare una norma che contemplasse di far pagare ai procuratori il costo dei loro «incidenti» o dell’accanimento giudiziario, consentendo allo  Stato o al privato cittadino di rivalersi su di loro dopo che fosse riconosciuta l’ingiusta detenzione. Una lacuna colmata ieri da un deputato leghista, Gianluca Pini, il quale ha presentato un emendamento che permette a chiunque di far causa a un giudice in caso si senta vittima di un arresto immotivato. Apriti o cielo. Anm, ossia il sindacato delle toghe, non ha perso l’occasione per strillare. E la stessa ministra Severino è intervenuta per manifestare il proprio disappunto.  «Spero», ha detto, «che il Senato cambi la legge».  Perché è vero che il Parlamento è sovrano, ma il giudice è imperatore. Le toghe stanno un gradino più su, in una specie di zona franca in cui è garantita l’intoccabilità. Ciò nonostante, questo sarebbe proprio il momento di affrontare la questione. Non essendoci di mezzo Berlusconi, e dunque l’alibi del conflitto d’interessi, i professori dovrebbero trovare il coraggio per regolare la faccenda. E invece no. Come detto, i tecnici si mettono di traverso, bocciando l’emendamento e augurandosi che l’altro ramo del Parlamento lo cambi. Le argomentazioni immaginiamo saranno le solite. I magistrati pagano già nel caso sbaglino: per loro c’è il Csm. Peccato che il tasso di ammende comminato alle toghe dall’organo il quale    dovrebbe vigilare su di loro sia  pari al 7 per cento. Il 93  per cento dei magistrati che vengono sottoposti a provvedimento disciplinare dal Consiglio superiore insomma la fa franca, venendo assolto. Che il sistema non funzioni e sia il caso di cominciare a mettere in riga certi pm lo ha capito perfino un mozzaorecchi come Luciano Violante, il piddino convinto che è sempre stato dalle parte delle toghe. In un’intervista all’Unità, l’ex magistrato ed ex presidente della Camera, ha spiegato che nel caso l’ex governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco, dovesse risultare innocente dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver incassato mazzette, il magistrato dovrebbe risponderne direttamente . «Se si è trattato di errore siamo di fronte ad un errore grave: è finita in carcere una persona innocente, la si è ricoperta d’infamia, è caduto un governo regionale». Secondo  Violante, bisogna valga per tutti il principio che chi commette un errore deve risponderne. Anche per chi amministra la giustizia. Sarà perché Del Turco è un uomo del Pd, ma si tratta di una novità, di un tentennamento della linea secondo la quale i giudici non sbagliano mai e quando lo fanno sono in buona fede. Non so se alla fine l’emendamento leghista supererà il vaglio del Senato e diventerà legge: da quanto abbiamo fiutato è probabile che la lobby dei magistrati faccia di tutto per sgambettarlo. Ciò nonostante, rendere tutti gli italiani identici di fronte alla legge, a cominciare dai giudici, sarebbe un bel passo avanti. Forse, per la prima volta, leggendo la scritta con cui si ricorda che la giustizia è uguale per tutti, non  abbasseremo lo sguardo davanti agli uomini in toga, guardandoli come testimonianza vivente di una bugia. di Maurizio Belpietro