L'editoriale

Giulio Bucchi

Prima di essere tumulato nel cimitero di Novara, sua città natale, Oscar Luigi Scalfaro è stato sepolto sotto un cumulo di retorica. Dal momento in cui si è diffusa la notizia della sua morte, nessun soffietto gli è stato risparmiato. Il meglio lo si è potuto leggere ieri: ogni giornale ha pubblicato tre-quattro pagine di peana, decantando le qualità dell’ex presidente. In compenso, tranne qualche rara eccezione, le vicende più controverse della sua vita politica sono state annacquate, quando non occultate. A cominciare da quella più pruriginosa del famoso schiaffo a Edith Mingoni Toussan, «rea»  di esibire una generosa scollatura in un ristorante romano. Per renderlo digeribile ai lettori di Repubblica, Eugenio Scalfari non ha esitato ad accreditare la versione del bigottone, il quale con il passare degli anni era giunto a negare che vi fosse stato lo schiaffo, dimenticando le testimonianze e che l’episodio è addirittura riportato in un manuale di disturbi del comportamento sessuale. Raccontare la lunga cavalcata del defunto capo dello Stato però non richiede un articolo: ci vorrebbe un’enciclopedia. Dai suoi trascorsi nella magistratura fascista a pm dell’Italia liberata che chiede la condanna a morte di un repubblichino; da sottosegretario allo Spettacolo a censore dei film di Fellini; da integralista democristiano a ultra anti-berlusconiano. La sua vita è stata tutta una contraddizione. Non volendo però tediare i lettori, mi limiterò a qualche episodio su cui, pur accennandone qua e là nelle cronache, i quotidiani hanno preferito sorvolare. Il primo risale al 1993, meno di un anno dopo la sua nomina al Quirinale. Mani pulite era già scoppiata e il governo Amato traballava. Capito che l’operazione della magistratura avrebbe spazzato via la classe politica, i partiti cercarono di salvarsi affidandosi a Giovanni Conso, giurista torinese che dopo le dimissioni di Claudio Martelli era stato designato ministro della Giustizia. Cattolico, ex vicepresidente del Csm, già presidente della Corte costituzionale e candidato del Pds per il Quirinale, Conso era l’uomo perfetto per mettere tutti d’accordo. Il Guardasigilli preparò un decreto per depenalizzare il reato di finanziamento illecito. Giuliano Amato, che del governo era il capo, fece la spola con il Colle per concordarne i termini e limarne le asperità e alla fine Scalfaro diede la sua benedizione. Tutto pareva pronto  per chiudere la stagione di Mani pulite e legalizzare le mazzette passate e future. Peccato che nessuno avesse fatto i conti con il Pool, che vedendosi sottratto l’osso mentre già si preparava a spolpare la prima Repubblica, reagì. Dopo una riunione passata con i suoi sostituti a mettere insieme il comunicato, Francesco Saverio Borrelli, numero uno della Procura, convocò i giornalisti e sparò il siluro che affondò il decreto. L’Unità, all’epoca diretta da Walter Veltroni, era pronta ad appoggiare il provvedimento, ma fiutata l’aria che si respirava a Repubblica decise di schierarvisi contro e così pure gli altri giornali, i quali, come è noto, concordavano fra di loro la linea. Il decreto venne denominato «Salva ladri» e Scalfaro, che pure era in combutta con Amato, si spaventò tantissimo, al punto da convocare il premier alla presenza dell’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano e di quello del Senato Giovanni Spadolini. Il discorso fu breve e si concluse con la bocciatura senza appello dell’espediente escogitato per uscire da Tangentopoli. Così, per pavidità, l’uomo che in queste ore viene dipinto come il difensore della Costituzione senza se e senza ma, contribuì ad affossare la prima Repubblica e molti suoi compagni di cordata. I quali, certo, con i finanziamenti non c’erano andati per il sottile, ma non erano molto diversi da quelli che poi fecero le verginelle, negando di essere mai stati a conoscenza del sistema con cui i partiti trovavano i soldi per le campagne elettorali. Ieri Amato su La Stampa, commemorando il defunto capo dello Stato, tendeva a minimizzare, sostenendo che il decreto fu bocciato per una questione giuridica (lasciando intendere che un ex presidente della Consulta ed ex vicepresidente del Csm avesse scritto un provvedimento incostituzionale), ma anni fa, in un’intervista al  Corriere della Sera, dimostrò di pensarla in maniera diversa, confermando che Scalfaro se l’era fatta sotto. Disse: «Non firmò dopo il pronunciamento della procura di Milano. Il veto fu un episodio riprovevole». Ma perché il presidente aveva ceduto al Pool? Perché tanta paura? Ah, saperlo... Si sa invece molto a proposito del famoso «Non ci sto» pronunciato a reti unificate, su cui, pur citandolo, la grande stampa ha preferito ieri non entrare nel dettaglio. La storia iniziò quando la Procura di Roma scoprì che un certo numero di spioni del Sisde aveva usato i fondi neri del servizio non per fini istituzionali, ma per far la bella vita. Il gruppetto finì in galera, ma quando gli vennero contestati gli episodi, reagì usando la formula del così fan tutti. In particolare chiamarono in causa Scalfaro, il quale da ministro dell’Interno si sarebbe fatto consegnare mensilmente una busta con cento milioni, senza mai spiegarne la destinazione. Non solo: il direttore del Sisde, interrogato subito dopo il suo arresto, rivelò che fino ad allora aveva mentito su indicazione dello stesso Scalfaro e di altri. Successe il putiferio:  la notizia fece il giro delle redazioni e il presidente della Repubblica si precipitò in tv pronunciando il discorso con cui è passato alla storia. Non smentì, non negò di aver preso i soldi: disse io non ci sto e che l’accusa contro di lui era da considerarsi un attentato. «Prima si è tentato con le bombe (quelle a Falcone e Borsellino, che incidentalmente portarono alla sua elezione, ndr), ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali...». Lo avesse detto un altro, senza spiegare alcunché, la stampa lo avrebbe spellato vivo, ma Scalfaro inspiegabilmente fu graziato. A salvarlo fu anche la Procura, che invece di procedere senza esitazioni nei suoi confronti come chiedeva il titolare delle indagini (gli atti non erano stati commessi in veste di presidente della Repubblica, ma da ministro degli Interni e dunque non valeva l’immunità),  si spaccò. Da un lato alcuni magistrati che sostenevano l’obbligatorietà dell’azione penale anche nei suoi confronti per concorso in peculato. Dall’altro gli esponenti di spicco di Magistratura democratica, secondo i quali l’operazione andava soffocata sul nascere per impedire che si giocasse allo sfascio delle istituzioni. Prevalsero i secondi, i quali  - per «imbrigliare» i cinque del Sisde che accusavano il capo dello Stato -  ricorsero ad un articolo del codice penale di solito usato contro i terroristi. Attentato agli organi dello Stato, un reato punito con una pena non inferiore a dieci anni. Francesco Misiani, uno dei pm che seguirono il caso, ricostruendolo ricordò che la norma era talmente desueta che neppure i più anziani procuratori si rammentavano d’averla mai contestata: neanche durante il terrorismo. «Ipotizzare un reato del genere»,  scrisse, «mi sembrava francamente eccessivo. Teneva a stento sotto il profilo giuridico e risultava del tutto artificioso sotto il profilo attuariale. Era evidente che i cinque del Sisde non stavano progettando un golpe, ma si stavano difendendo disperatamente». Ciò nonostante la linea di Md passò e gli indagati furono messi in una condizione senza via d’uscita: o ritrattavano o, se avessero insistito a voler coinvolgere Scalfaro, sarebbero stati indagati per un reato gravissimo, da cui sarebbero usciti con sentenze pesantissime. Parola di Misiani. Com’è finita è noto. I cinque del Sisde furono condannati per peculato. Il resto della storia fu archiviato e delle buste con i cento milioni non si è saputo più nulla. Nel profluvio di lodi e lacrime sparsi a piene mani dai commentatori, chi lo ha definito roccioso e intransigente non ha però sbagliato. Grazie a questi aspetti del suo carattere, l’ex presidente si è portato con sé tutti i suoi misteri. A cominciare da quello dell’avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994, di cui fu informato da Borrelli ma che si guardò bene di far posticipare nonostante a Napoli fosse in corso il G7. E per finire con la trattativa Stato-mafia e i 300 picciotti ai quali, inspiegabilmente, dopo la stragi fu alleggerito il regime carcerario. Scalfaro allora era presidente (e Conso, quello del decreto, ministro della Giustizia), ma interrogato dai magistrati disse di non saperne nulla e di non ricordare. I giornali, ovviamente, hanno riportato senza commentare. In nome della pax condicio.     Fin qui l’ex presidente. Ci siano consentite però ancora due parole su quello attuale. Ieri sempre Scalfari su Repubblica lo accostava al defunto, sostenendo che entrambi, a differenza di Ciampi, hanno il medesimo percorso: da politici si sono trasformati in uomini delle istituzioni. In effetti, di somiglianze ce n’è più d’una. Entrambi provengono da due chiese, quella democristiana Scalfaro, quella comunista Napolitano. Tutti e due sono stati ministri dell’Interno e presidenti della Camera. Una volta saliti al Quirinale, sia l’uno che l’altro hanno smesso i toni misurati per assumere uno stile decisionista. Anche il vizio di farsi i governi su misura li accomuna: una volta sul Colle, Oscar Luigi ne nominò un paio,  Giorgio è sulla buona strada. Perfino il piglio dichiaratorio è uguale: il Campanaro metteva bocca su tutto, il suo erede non fa differenza. L’ultimo intervento Napolitano ce l’ha riservato ieri, approfittando della laurea honoris causa, per dire che il governo deve impicciarsi di legge elettorale. Sia ben inteso però: come il predecessore, anche l’attuale capo dello Stato non parla per sé, ma sempre per conto della Costituzione. Benedetta Carta! Sapesse quante cose si fanno in suo nome.  di Maurizio Belpietro