L'editoriale
Qualche giorno fa un piccolo imprenditore edile padovano si è suicidato. Difficoltà economiche, hanno scritto i giornali. Non era il primo e probabilmente non sarà l’ultimo: la crisi sta colpendo duro e la gente per bene che ha passato la vita a tenere in piedi la propria azienda non si rassegna al fallimento. Nel caso del costruttore edile che si è sparato questa settimana c’è però una novità: a differenza degli altri, l’uomo aveva crediti per centinaia di migliaia di euro. Il problema è che nessuno lo pagava e lui ha dovuto tirar giù la saracinesca e mettere in cassa integrazione i dipendenti. Ma l’aspetto più incredibile della vicenda è che a dovergli i soldi erano gli enti locali per cui aveva lavorato e lo Stato. Sì, avete letto bene. Quello Stato che nella Costituzione riconosce la libertà di ogni singolo cittadino di intraprendere un’iniziativa economica, poi alla fine è lo stesso che strangola l’attività di cui a parole si erge a tutore. Certo, non stiamo parlando delle grandi aziende. Per quelle c’è sempre la possibilità di farsi ascoltare e, soprattutto, pagare. Per loro esiste ogni genere di sussidio e di attenzione come ha dimostrato ieri il nostro Franco Bechis. No, qui parliamo di micro imprese, di attività a conduzione familiare, con pochi dipendenti e tanta fatica: per intenderci di quelle che tengono in piedi l’Italia. Aziende che, come gesto di riconoscenza, lo Stato prende per il collo, rifiutandosi di saldare il conto e comportandosi come uno spregiudicato imbroglione, il quale approfittando della lentezza della giustizia campa con i soldi degli altri, rinviando di mese in mese i versamenti. Secondo le ultime allarmate denunce, la pubblica amministrazione quando c’è da aprire il portafogli se la prende comoda. Un tempo non pagava mai prima di 90-120 giorni, adesso si arriva anche a 150-180. Quasi sei mesi per ottenere ciò che è dovuto. Il problema riguarda chiunque lavori per Comuni, Regioni o enti, anche perché la minaccia di ingiunzioni di pagamento o di pignoramento ai burocrati che tengono in mano i cordoni della borsa non fa né caldo né freddo. Non ci sono soldi è la risposta che gli imprenditori si sentono ripetere quando battono cassa: vi dovete mettere in coda, in attesa della liquidità. In verità il denaro ci sarebbe, ma è divorato proprio dal moloch della macchina statale, la più inefficiente e sprecona che si sia vista in Europa. Giuseppe Bortolussi, il segretario dell’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, ha calcolato che, tolti gli interessi sul debito, un quarto della spesa pubblica nazionale è assorbito dagli stipendi. Secondo le ultime cifre disponibili ad essere alle dipendenze dello Stato sono 3,6 milioni di persone, una ogni sedici abitanti. La Germania, che è più grande, di dipendenti pubblici ne ha 4,5 milioni, ovvero uno ogni 18 abitanti. Un esercito, quello italiano, cui non corrispondono servizi di prim’ordine. Anzi, nonostante si abbia più personale pro capite dei crucchi, i nostri fanno schifo. Uffici lerci in cui il cittadino è costretto a fare la fila e dove è spesso maltrattato. Ogni persona di buon senso capirebbe che è da lì che bisogna partire. Dalla spesa pubblica, dall’apparato statale, dalle mezze maniche che non rispondono mai dei loro errori e dei loro ritardi e il cui unico obbligo è la fedeltà a chi ha trovato loro il posto. Ma invece di metter mano alle cesoie e snellire la struttura, trovando negli sprechi della pubblica amministrazione le risorse per far ripartire il Paese, il nuovo governo che fa? L’esatto contrario. Non blocca il turn over negli uffici pubblici e si contenta di bloccare la rivalutazione delle pensioni. Quindi al posto di tagliare, tassa. Quando Monti si presentò alla Camera per ottenere la fiducia del Parlamento, infiocchettò il suo discorso con una serie di belle parole. Su tutte ne spiccavano tre, che il nuovo presidente del Consiglio scandì perentorio, sostenendo che la manovra avrebbe favorito l’equità, la crescita e il rigore. Di equità non si è vista l’ombra, la crescita per ora è una lontana aspettativa, il rigore non è quello che ci saremmo aspettati. Già, mentre il governo finge di ridurre le spese, in realtà l’unico rigore messo in pratica è quello nei confronti dei contribuenti. I quali sono trattati tutti come potenziali evasori e dunque sottoposti a occhiuti controlli oltre che a pesanti pressioni. Con la scusa della lotta all’evasione, chi finisce nel mirino del Fisco non ha scampo: anche se ritiene che la tassa non sia dovuta deve rassegnarsi a pagare, pena vedersi pignorati i beni. In pratica, se è lo Stato a battere cassa, i soldi si devono cacciare subito, se invece tocca alla pubblica amministrazione versarli, essa se ne infischia. È questa l’equità cui allude Monti? È così che si intende contribuire alla crescita delle piccole imprese? Attendiamo le risposte. Se Monti desidera far tornare a correre il Paese ha una sola via: invece di stangare, rimborsare le aziende. Vari una riforma del Fisco che tuteli i contribuenti onesti e punisca davvero i furbi. Vedrà, gli effetti saranno straordinari. Più di certe tasse, che pur essendo definite tali rischiano di diventare ordinarie.