L'editoriale

Lucia Esposito

DI FRANCO BECHIS - C’è un paragone che in queste settimane più volte emergeva mentre i titoli di Stato si prendevano schiaffi dalla speculazione sui mercati internazionali: è quello con il 1992. Non è un riferimento improprio perché oggi come allora l’Italia è un paese con economia robusta, un sistema politico fragile, catene del passato che lo imbrigliano e lo rendono impotente di fronte alla tempesta. Eppure proprio in queste ore in cui tanti vagheggiano come unica panacea il governo tecnico e invocano il nome di un professionista che certo ha qualità come Mario Monti, bisognerebbe rinfrescare la memoria di quel biennio terribile con cui finì la prima Repubblica. Chi dice Monti oggi forse pensa al Carlo Azeglio Ciampi del 1993. E sbaglia. Perché a salvare l’Italia dalla tempesta non fu il tecnico che veniva dalla Banca d’Italia. Il governo Ciampi fu anzi uno dei periodi più bui della storia repubblicana: quello degli attentati della mafia con le autobombe di Milano, Firenze e Roma; quello della trattativa ancora oggi oscura sul 41 bis. Fu il governo che assistette impotente al suicidio di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, che guardò attonito senza muovere un dito l’esplodere virulento dello scandalo dei fondi neri del Sisde, nella sua ondata che travolgeva il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Con Ciampi la disoccupazione superò il 21 per cento al Sud, la lira crollò in un drammatico 2 dicembre, la Rai annunciò di non potere pagare le tredicesime. No, non fu Ciampi a salvare l’Italia in quel biennio. Ci riuscì - con misure che ancora oggi fanno tremare i polsi - l’ultimo governo fatto nominare da Bettino Craxi: quello di Giuliano Amato.  Un governo politico, a cui la magistratura portava ogni giorno via un ministro, sorretto da una maggioranza chiusa in Parlamento sotto schiaffo delle procure. Eppure fu Amato a varare una manovra prima di 30 mila, poi di 90 mila miliardi di vecchie lire. A iniziare la privatizzazione delle grandi aziende di Stato, a costringere la Banca di Italia guidata da un Ciampi riluttante a svalutare la lira. E a salvare - come si poteva nel dramma dell’epoca - i conti pubblici italiani. Monti come Ciampi è un bravo tecnico, e come tutti i tecnici è follemente innamorato delle sue idee. Un politico ha idee, ma la sua capacità è adattarle alla realtà e alla contingenza del momento. Talvolta sa di dovere avere il coraggio di metterle da parte. Di scegliere non se stesso, ma il bene del suo Paese. I politici coraggiosi sanno di dovere fare i conti con il loro elettorato, e questo dà loro più forza, non debolezza. L’idea stessa che sta accompagnando il disegno di un governo Monti già anticipa il disastro che è alle porte, che è certamente assai peggio di quel che stiamo vedendo in queste ore. L’idea stessa di nominare un esecutivo tutto di tecnici perché i suoi supporter in Parlamento possano sporcarsi le mani il meno possibile, oltre che ipocrita, azzopperebbe qualsiasi esecutivo. Affrontare la tempesta sui mercati non è questione di uomini, ma di coraggio politico. Abbiamo più volte rimproverato a Silvio Berlusconi questa assenza di coraggio, ma le mosse di Pier Luigi Bersani e di gran parte dell’opposizione che stanno accompagnando fin sul Quirinale il disegno dell’agognato governo tecnico sono davvero piccola politica, il segno di un’assenza totale, del vuoto di una intera classe dirigente. Per questo occorre oggi, subito, che il presidente del Consiglio eletto nel 2008 dalla maggioranza degli italiani ritrovi il coraggio che serve e ci eviti un anno buio al cui confronto quello appena passato sembrerà l’era di Bengodi. Berlusconi lo deve a se stesso, ai suoi elettori, al Paese e perfino alla politica che dal 1994 provò a cambiare senza grandi risultati. È il momento di farlo vedere, e se il suo destino sarà chiudere una carriera politica in questo tempo, lo faccia provando a passare alla storia come uno statista. Da settimane sul tavolo dell’esecutivo ci sono simulazioni e ipotesi tecniche sui provvedimenti da adottare di fronte alla tempesta. Il governo quindi sa cosa deve fare, e anche se la medicina è amara prendere ulteriore tempo serve solo a procurare più danni. Nessuno si nasconde una certezza: l’attacco speculativo non riguarda l’Italia, ma l’intera Eurozona. Si vuole mettere in ginocchio la moneta, fare saltare l’intera costruzione e naturalmente si attaccano i fianchi deboli del corpaccione europeo. Uno, quello greco, è già stato praticamente disintegrato nel colpevole disinteresse (o interesse tardivo) di Germania e Francia. L’altro, quello italiano, è ora picconato furiosamente. La debolezza di questo Paese è tutta nel debito pubblico. Magari anche nella scarsità di crescita, ma è il debito pubblico il vero problema. Perché se anche il Pil miracolosamente crescesse e cambiassero i rapporti percentuali con il debito, in giro sui mercati finanziari e nei portafogli delle famiglie restano comune 1500 miliardi di titoli di Stato italiani. È  la cifra assoluta la debolezza: vale i due terzi circa dell’intero attivo dell’Eurosistema. Se qualcuno avesse risorse per attaccare il corpaccione del debito italiano a lungo, non ci sarebbe benzina sufficiente per la sua difesa se non chiamando a raccolta tutti i grandi del mondo, Cina e Stati Uniti compresi. L’Europa non basta. E qualcuno all’attacco è chiaro che c’è. Non c’è altra soluzione per l’Italia che togliere dal campo aperto di battaglia almeno una parte di quei titoli di Stato. Solo questo calmerebbe la speculazione e farebbe ritornare i mercati a un periodo di relativa tranquillità. Come si può togliere quel debito all’attacco? In due modi, entrambi necessari. Primo: estinguere la produzione di nuovo debito pubblico. Questo si ottiene riducendo la spesa previdenziale, quella sanitaria e quella per il pubblico impiego. Secondo: tagliare il debito pubblico riassorbendolo anche in maniera brusca. Da mesi il Tesoro sta lavorando in questa direzione per costituire uno o più fondi per le dismissioni immobiliari. Nell’articolo 33 dell decreto legge 98 del 2011 (la manovra di luglio) è segnato un percorso piuttosto farraginoso e lungo per mettere insieme beni immobili nazionali e appartenenti agli enti locali. Il primo fondo dovrebbe nascere nel 2012 e alla fine del percorso possedere almeno 400 miliardi di patrimonio. Non c’è tutto quel tempo. Il fondo serve ora, senza attendere gli enti locali e le varie procedure. Bisogna alla velocità del fulmine inserire tutto quel che si ha (anche le quote in Eni, Enel, Poste, Rai etc..) in una o più società veicolo da quotare, stabilire il piano di dismissioni, prevedere il rendimento del capitale e poi favorire e se necessario imporre la conversione di alcune categorie di titoli di Stato in azioni di quelle società mobiliari e immobiliari.  È  una vecchia idea del professore Giuseppe Guarino che non a caso la sfoderò quando faceva il ministro dell’Industria del governo Amato in piena crisi del 1992.  Quella da scegliere è la via più veloce per abbattere il debito. Ad alcuni potrà sembrare un consolidamento parziale del debito pubblico, ma se si offre in cambio patrimonio tangibile così non è. Bisogna ridurre il debito, subito. Rendendo l’operazione comprensibile ai mercati e ai risparmiatori e anche socialmente accettabile. In fondo chi investe in un titolo di Stato ha dalla sua il rendimento e a garanzia qualcosa di impalpabile come la fiducia dello Stato emittente. Se si sposta quell’investimento su rendimenti anche più elevati, e con garanzie tangibili (società e beni immobili), non c’è ragione perché il risparmio possa sentirsi tradito. di Franco Bechis