L'editoriale
Come i lettori sanno, da un pezzo sosteniamo l’urgenza di alzare l’età pensionabile a 65 anni. La nostra non è una convinzione dettata dalla voglia di vincere il premio Stakanov. Tutt’altro: anche noi, al pari di molti lavoratori cinquantenni, ambiremmo a ritirarci prima dello scoccare dei 60 anni e dedicarci agli ozi fin qui trascurati. Purtroppo sappiamo che ciò non sarà possibile, in quanto andando tutti in pensione cinque anni prima rispetto al resto d’Europa, prosciugheremmo le casse previdenziali, lasciandole senza un euro né per i futuri pensionati né per quelli che l’assegno di quiescenza già lo percepiscono. Che questo sia il rischio è cosa pacifica anche per chi non abbia le competenze di un Tremonti o di un Draghi: basta dare un occhio al bilancio dell’Inps, come ha fatto il nostro Franco Bechis. Leggendo il documento si scopre che i conti previdenziali non sono affatto in ordine come si tende a credere, ma fanno acqua in diversi punti. Già oggi l’istituto paga più pensioni dei contributi che incassa e, se non ci fossero i 90 miliardi che ogni anno lo Stato versa, sarebbe in bancarotta. Quanto può durare il ripianamento a pié di lista con i soldi pubblici? Giudicando lo stato di salute della finanza statale, diremmo poco. Dunque, prima di trovarci a non poter liquidare gli assegni previdenziali, urge intervenire e la medicina non può che essere l’innalzamento dell’età pensionabile, misura impopolare ma, ahinoi, necessaria. Tutto ciò premesso, ci permettiamo di avanzare qualche perplessità riguardo alle misure adottate dal governo. In particolare ci riferiamo ai riscatti di naja e laurea, che da ieri non valgono più ai fini del calcolo dell’età in cui ritirarsi. Molti professionisti e lavoratori dipendenti, negli anni passati, si sono fatti i loro conti e, nella speranza di accelerare la scadenza di fine lavoro, hanno speso migliaia di euro. Il riscatto infatti non è gratis, in quanto gli enti fanno pagare assai salata la ricostruzione dei contributi: circa il 33 per cento del reddito. Ora, dopo aver preso i soldi, il governo improvvisamente cosa fa? Dice: scusate, abbiamo scherzato, quelle marchette non valgono più. Vi sembra un comportamento degno di uno Stato liberale? A noi pare uno scherzo da prete bello e buono e lo diciamo senza voler mancare di rispetto alla categoria di prevosti e curati. Come si fa a incassare per anni il denaro di un contribuente e poi, quando il pagatore rivendica il diritto per cui ha pagato, rispondergli che questo non c’è più? Si dirà: c’è la crisi, bellezza. Non è una giustificazione. Come per il contributo di solidarietà sui redditi oltre i 90mila euro, qui si mettono le mani in tasca non a persone che evadono le tasse e i contributi, ma a gente ligia al dovere che regolarmente rispetta le scadenze esattoriali. Immaginiamo già l’obiezione successiva: non c’era altra via. Ma questo non è vero. Come per la supertassa sul ceto medio, l’alternativa c’è. Per il contributo straordinario c’erano le agevolazioni fiscali concesse alle Coop. Nel caso in questione ci sono i cosiddetti contributi figurativi, ossia quelle marchette che non sono versate né dal lavoratore né dall’azienda, ma danno comunque diritto a ottenere la pensione. Si tratta di contributi finti, che non esistono o, meglio, esistono in quanto a pagarli è direttamente l’ente previdenziale. A goderne sono i funzionari sindacali e gli eletti nei vari organi rappresentativi, cioè, per intenderci, parlamentari, consiglieri regionali, provinciali, comunali e così via. Una legge fatta su misura per le caste di sindacalisti e politici, che garantisce la pensione anche a chi non la paga. In Italia si stima che i rappresentanti dei lavoratori siano circa 50mila e almeno il doppio le persone che vivono di politica. Per tutti la previdenza è gratis, ma non per l’Inps e gli altri istituti, i quali il giorno in cui gli esponenti delle due caste vanno a riposo sono costretti a corrispondere l’assegno di quiescenza nonostante non sia mai stato versato un euro. In molti casi al danno si sommano le beffe. Infatti, oltre alla pensione non versata, parlamentari e consiglieri regionali si sono regalati un vitalizio a spese dell’ente di cui sono rappresentanti, così il trattamento previdenziale raddoppia. Inoltre tra i funzionari di partito c’è chi si fa assumere da una società amica il giorno prima di essere dichiarato eletto, in tal modo può ottenere la pensione grazie all’aspettativa per mandato elettorale. Stessa furbata si registra nel sindacato. Per ingaggiare un dirigente senza essere costretti a inquadrarlo a carico della confederazione è sufficiente farlo assumere da un’impresa compiacente. Il giorno stesso del suo ingresso in azienda il dirigente verrà distaccato presso una sede di categoria e a versargli i contributi per la pensione sarà l’Inps, con gran risparmio di Cgil, Cisl e Uil. Risultato: la pensione di gran parte dei vertici sindacali è costruita in questo modo. E al momento di ritirarsi, pur non avendo mai lavorato un solo giorno in fabbrica, godranno di un trattamento uguale a chi si è spaccato la schiena per 40 anni. Prima di mettere mano ai riscatti di naja e laurea, non sarebbe stato meglio toccare i privilegi previdenziali di sindacalisti e politici? Certo. Ma sciaguratamente sono politici e sindacalisti a decidere le manovre e ai normali contribuenti tocca soffrire. Con l’aggiunta di dover pure assistere allo sciopero in difesa delle pensioni. Ovviamente, le loro.