L'editoriale
Da qualche giorno i maggiorenti del Popolo delle Libertà rimuginano su una domanda: ma che vuole Tremonti? Dove vuole andare, qual è la sua strategia, che cosa realmente ha in testa e come intende perseguirla? Il quesito sul ministero dell’Economia si è rinforzato dal giorno in cui Giulio ha fatto filtrare i tagli alla Casta, comunicati prima ai sindacalisti che ai colleghi di partito. Anzi: all’incontro con gli onorevoli del Pdl, il numero uno di via XX settembre a Roma è scivolato come un’anguilla tra le mani di chi gli chiedeva informazioni sui contenuti della manovra che dovrà essere discussa nei prossimi giorni. Perché, si sono chiesti i colleghi, si è comportato così? La sua è parsa quasi una provocazione. Addirittura qualcuno l’ha interpretato è come un vero e proprio sgarbo, consumato non contro l’opposizione, ma contro la stessa maggioranza di governo. È vero che Giulio non è conosciuto per il buon carattere e in qualche caso questo si è ritorto contro di lui, per esempio quando nel 2004 si urtò con Gianfranco Fini e fu licenziato su due piedi, ma nonostante ciò il suo comportamento non è autolesionista. Allora, insistono a domandarsi i colleghi, perché fa così? E a questo punto un dubbio ha cominciato a serpeggiare. E se volesse farsi cacciare? Se stesse facendo tutto ciò proprio per irritare non solo il Popolo delle Libertà, ma anche la Lega, per ottenere di farsi mandare a casa? Certo, posto così, senza spiegazione, lo scenario potrebbe sembrare cervellotico, ma se ci si riflette si capisce che non lo è. Spieghiamo in breve come mai. Tremonti conosce a menadito il bilancio dello Stato e sa che oggi di trovare i soldi per fare le riforme finanziarie non c’è verso. Se tutto va bene, cioè in caso di successo del federalismo fiscale, ci saranno fra due o tre anni, dunque quando la legislatura sarà conclusa. Quindi, il centrodestra dovrà fare una camminata nel deserto della crisi economica senza far conto su oasi in grado di lenire l’arsura della stretta. Altro che riduzione delle tasse o incentivi alla crescita. Qui è tanto se si riesce a mantenere ciò che si ha, senza un ulteriore aggravio di imposte. Certo, la delega in discussione in questi giorni prevede un taglio delle aliquote pagato con l’incremento di un punto dell’Iva e perfino una limatina all’Irap. Ma, come detto, è roba che al massimo entrerà in vigore tra il 2013 e il 2014, dunque fuori tempo massimo. Naturalmente sempre che le cose rimangano come stanno, ovvero non peggiorino. Diversamente, se aumenterà il rischio Paese per gli investimenti in Italia, i rendimenti dei titoli di Stato aumenteranno, con inevitabile ricaduta sul nostro debito pubblico e conseguente azzeramento dei programmi di tosatura dei tributi. Come si capisce, la prospettiva non è rosea. Soprattutto per Tremonti, il quale si troverebbe nel migliore dei casi a gestire un periodo difficile per poi consegnare i conti in ordine e la riforma fiscale a chi verrà dopo di lui, nel 2014. Nel peggiore a varare una manovra di lacrime e sangue senza neppure il conforto di una riduzione delle imposte, anche se futura. Risultato? Forse Giulio comincia a studiare la via di fuga. Andarsene ora, cacciato da una maggioranza spendacciona che fra pochi mesi potrebbe essere costretta a una finanziaria più pesante della sua, diventerebbe un titolo di merito. Quasi una medaglia da esibire una volta passata la buriana. In più, un licenziamento a due anni dalle elezioni consentirebbe di non essere coinvolti in ciò che molti considerano ormai inevitabile, ossia la caduta di Berlusconi. A questo si aggiunge una certa lisciatura di pelo che da qualche tempo certi ambienti riservano al ministro, accreditandolo di una discreta popolarità. Basti pensare che ieri un sondaggio di Repubblica attribuiva a Tremonti un gradimento del 54,5 per cento, il più alto fra gli uomini politici. Più del doppio rispetto al Cavaliere, di venti punti superiore a Casini, quindici su Bersani. Si sa: i sondaggi sono virtuali, ma ciò nonostante fanno sognare. E non è detto che oggi il superministro non stia correndo un po’ avanti con la fantasia. Levarsi dall’impiccio di tirar fuori un coniglio magico dal cappello che salvi il centrodestra e giocarsi la partita da solo. Fra un po’, quando magari la situazione si farà tanto grave da richiedere una specie di salvatore della patria. Mezzo tecnocrate e mezzo politico. Senza una base elettorale, ma con parecchia autorevolezza. Insomma, Giulio gioca a fare il premier. In fondo, sognare non costa niente. Neanche un taglio di tasse. Ps.: Tremonti ricordi però una cosa. Il bacio del quotidiano che fu di Scalfari non ha mai portato bene a nessuno. Non a Berlinguer né a De Mita e, in tempi più recenti, neppure a Veltroni e Fini. Meglio tenersi alla larga.