L'editoriale

Andrea Tempestini

Una botta tira l’altra. Dopo quella delle amministrative che ha regalato Milano e Napoli alla sinistra, la sberla dei referendum.  Una scoppola attesa e messa in preventivo, ma che non fa meno male della prima. Riconosciamo che era difficile evitarla. Dopo l’incidente di Fukushima la paura del nucleare è tanta ed essendo un sentimento profondo, determinato più dall’irrazionalità che dal ragionamento, le probabilità di sconfiggerla erano scarse. Il centrodestra però  non ci ha neppure provato. Troppo terrorizzati dall’onda alta referendaria,  Pdl e Lega hanno rinunciato a difendere le loro leggi su energia, acqua  e legittimo impedimento.  Non solo hanno lanciato messaggi contraddittori («Quesiti allettanti», «libertà di voto», «non andate alle urne»), ma hanno pure evitato di mettere in evidenza le molte contraddizioni del fronte abrogazionista. Come racconta il nostro Franco Bechis, a dimostrazione del camaleontismo progressista  sarebbe bastato mostrare le proposte di legge del Pd sulla gestione degli acquedotti, in cui si reintroduce ciò che il partito di Bersani ha appena contribuito a cancellare. Oppure distribuire gli articoli di «Repubblica» sugli effetti dello stop al nucleare, in cui è spiegato che le fonti rinnovabili non potranno sostituire le centrali atomiche se non fra 15 o 20 anni: nel frattempo saremo costretti a usare il gas, con il conseguente inquinamento delle falde acquifere ed aumento dell’effetto serra. Recriminare sugli errori fatti e su ciò che non si è detto è però inutile. Al punto in cui si è giunti servirebbe a poco. Dire che le amministrative sono state perse per i candidati sbagliati e per i toni  della campagna elettorale non aiuta. Ciò che conta è darsi una mossa, prima che la partita sia persa e la squadra retrocessa. Per evitare questo scenario, non basterà la nomina di Angelino Alfano alla guida del Popolo della Libertà in luogo dei tre triumviri. Né lo spostamento al Nord di un paio di ministeri senza portafoglio e con poche decine di dipendenti al seguito. Quello è maquillage politico, che copre i lividi ma non li cura. Se una parte di elettori moderati ha votato in un certo modo, o non ha votato, lo ha fatto per  dimostrare la sua disaffezione e la sua scontentezza. Ciò nonostante non c’è stato un vero travaso da destra a sinistra. Lo dimostrano i sondaggi diffusi ieri da Enrico Mentana durante lo speciale su La 7. Seppur traditi alle amministrative e al referendum, Pdl e Lega tengono, conservando il 40 per cento dei voti, mentre i principali partiti di sinistra (Pd, Sel e Idv) si rubano consensi  fra loro o li sottraggono al Terzo polo.  In sostanza, chi è moderato non ha cambiato idea. E questa è una buona notizia. Ma siccome non è detto che in futuro non decida di cambiarla, è necessaria una svolta. Il sentimento di insoddisfazione dell’elettorato si può ancora recuperare. Berlusconi e Bossi sono in grado di convincere i fans delusi dall’operato del governo, ma non bastano le chiacchiere, né gli effetti speciali usati negli ultimi tempi. Ora servono alcune cose concrete. I due leader  sono di fronte a un bivio. O si suicidano, dividendosi e rimbrottandosi l’un l’altro gli errori. O decidono di spendere ciò che resta della legislatura per realizzare un paio di misure importanti. La prima riguarda ovviamente il fisco. La riforma va fatta, ma non domattina come si pretende: ribaltare Tremonti è inutile, perché nelle sue tasche non c’è un centesimo.  Per lo meno se prima non si fanno i tagli. Si affidi al ministro dell’economia un piano di interventi secchi e decisi, sapendo che si andrà incontro alle inevitabili proteste. In cambio si offra al paese quella riduzione delle imposte tanto attesa. Insieme col piano anti-tasse servirà però un programma che liberi tutti dalle angherie della burocrazia. Le vessazioni dello Stato sono tra le cose che i cittadini detestano di più e per questo il governo aveva promesso di eliminarle. Ma ad oggi non si è visto nulla, se non gli annunci. I tagli fiscali e quelli alle norme assurde non saranno una rivoluzione, ma potrebbero essere un inizio.  Nel frattempo Berlusconi rinunci a parlare di giustizia, dato che ormai  quella è una battaglia persa. E Bossi lasci perdere la Libia: anche se la spuntasse non recupererebbe un voto. Insomma, sebbene compromessa dai noti errori, la guerra non è ancora persa. A patto, che davvero, il centrodestra la voglia vincere e non si sia anch’egli arreso alla legge del non c’è due senza tre.