L'editoriale

Andrea Tempestini

Il disastroso risultato di Napoli e Milano non è un campanello d’allarme. È una sirena, e di quelle che bucano i timpani. Chi pensasse di minimizzare, descrivendolo come un’elezione di metà mandato simile ad altre  perse in passato salvo poi riprendersi alle Politiche,  oppure di nasconderlo dietro i successi registrati a Cosenza o Reggio Calabria come è stato fatto al primo turno, sbaglierebbe di parecchio. Non solo perché la sconfitta riguarda anche altre città date per acquisite dal centrodestra, come ad esempio Cagliari e Novara, da sempre feudi moderati. Ma perché dimostrerebbe di non capire il vento che soffia al Nord come al Sud in questa tarda primavera. L’aria, spiace dirlo, non è favorevole all’attuale maggioranza. Saranno le liti fra i cofondatori del Pdl, sarà la crisi economica, saranno i poteri forti che si sono messi tutti insieme a remare contro o la sensazione che il governo sia impantanato nei processi di Berlusconi e altro non riesca a fare. Sta di fatto che il gradimento pare sfiorare i minimi termini. Attenzione: lo diciamo senza disporre di alcun sondaggio particolare, ma dotati solo del buon senso. Parlando con la gente, quella per intenderci che non frequenta il Palazzo, abbiamo la sensazione che fra l’elettorato per la prima volta dopo anni si registrino stanchezza e disaffezione. È come se, dopo aver riposto tante speranze nelle promesse di cambiamento del Paese, oggi ci si rassegni perché ci si rende conto che la modernizzazione tanto attesa non c’è e non è sicuro che ci sarà. L’elettorato non ha voltato le spalle a Berlusconi scegliendo i concorrenti: semplicemente non lo ha votato, preferendo recarsi al mare piuttosto che al seggio elettorale. O per lo meno non lo ha votato una parte di quell’elettorato che fa la differenza,  che cioè garantisce o meno la maggioranza. Quaranta-cinquantamila persone a Milano, molte di più a Napoli, dato che un elettore su due ha disertato le urne. Sappiamo qual è l’obiezione di chi nel centrodestra è abituato a spaccare il capello in quattro. Questa non è una consultazione sul governo ma una votazione in cui si scelgono i sindaci e dunque non bisogna darle una valenza nazionale. La tentazione è ovviamente fortissima, perché così si può far finta di nulla e tirare a campare in attesa che succeda qualcosa di nuovo. È ovvio che domenica e lunedì si è messa la crocetta per decidere a chi fare gestire il municipio. Dunque anche i candidati sindaci hanno le loro colpe per aver concorso alla débâcle. Letizia Moratti è invisa a una parte dei milanesi, i quali - indipendentemente dal credo politico - le imputano di aver amministrato male la città. Il che non è completamente vero, ma molti lo credono, complice anche l’allegrezza da necroforo che la sindaca manifestava ad ogni occasione pubblica. Lettieri, pur non avendo fama di cattivo amministratore in quanto privo di precedenti politici, purtroppo ne aveva una sinistra. Frequentazioni e curriculum non erano tali da far sperare in un rinascimento campano, nonostante  l’imprenditore non avesse nulla da spartire con la passata gestione di Bassolino. Se l’immagine dei candidati non ha aiutato, è però l’assenza della speranza che ha pesato. Il centrodestra non è stato capace di impersonare il cambiamento. Le figure sostenute dai  moderati sono apparse come la continuità, mentre i due esponenti del centrosinistra, non avendo le solite facce, sono riusciti a far credere di essere il nuovo che avanza. Berlusconi, l’uomo che ha vinto le elezioni facendo sognare  gli italiani, questa volta non è riuscito a evocare alcun sogno. E peggio di lui hanno fatto i suoi candidati. Come detto, quello di ieri non è un campanello d’allarme. È qualcosa di più. Però non è neppure una campana a morto. Chi ritiene che a Milano si sia stato celebrato il funerale del centrodestra commette un errore e non solo perché il Pdl è ancora il maggior partito italiano, con il suo 28 per cento. La storia del blocco sociale e politico più importante del Paese non si chiude in seguito a una pur grave battuta d’arresto. Berlusconi se vuole può ancora ripartire. A patto che non minimizzi e torni a offrire agli italiani la rivoluzione liberale. Non sappiamo dire da che parte debba cominciare, ma fossimo in lui lasceremmo perdere la giustizia. Nonostante alle viste ci sia una pesante condanna patrimoniale per il cosiddetto Lodo Mondadori e il referendum per cancellare il legittimo impedimento, noi di giudici e tribunali parleremmo il meno possibile. Anzi, agli elettori - e anche a Obama e Medvedev - annunceremmo di non voler più intervenire sul tema, promettendo di farlo solo tramite una legge di riforma attesa da 17 anni. Dopo di che, ci dedicheremmo ai problemi veri, quelli di cui l’elettore si aspetta la soluzione. Lo sappiamo: si tratta di questioni difficili da sbrogliare e se il Cavaliere non c’è riuscito fino ad oggi è dura che possa farcela ora. Gli anni passano per tutti e la motivazione anche. Ci consola però un pensiero. Chiunque lo conosca sa che Berlusconi sopporta tutto, tranne che di fare la fine del perdente. Animo dunque, ce la si può ancora cavare. A patto di volerlo.   PS. Un ultimo appunto riguarda la Lega: nei panni di Bossi non cederemmo alla spinta di chi vuole rompere con Silvio per correre ad abbracciare Bersani. Il Senatur ha già provato a mollare il centrodestra, sedotto dalle promesse di Scalfaro e D’Alema,  e si sa come è andata a finire: il Carroccio ha rischiato di rimanere ai margini e di non portare a casa nulla. L’unica strada percorribile dunque è quella di restare uniti al Pdl. Vale per i leghisti che sognano le mani libere. Vale ancor di più per qualche responsabile che si illude di fare l’irresponsabile.