L'editoriale

Andrea Tempestini

Adriano Celentano è come certe vecchie zie che spariscono per anni, non sai neanche se siano ancora al mondo e, quando te le sei completamente dimenticate, toh, una sera, mentre stai arrotolando la prima forchettata di spaghetti, ti chiamano e ti affliggono raccontando tutto ciò che hanno fatto durante il beato lustro in cui si erano eclissate. Celentano per fortuna non ti disturba sul cellulare, quindi non interrompe la spaghettata, però ti rovina lo stesso la cena, perché telefona a Michele Santoro e questi, chissà perché, non gli si nega. Anzi, gli apre il microfono e non lo interrompe mai. Nella puntata di giovedì scorso (Annozero), Adriano ha chiacchierato a lungo: un quarto d’ora di spot a favore di Giuliano Pisapia e della sinistra, in barba alla par condicio. Pazienza. Che tutti i guai si fermino qui. D’altronde, noi siamo contrari ad ogni divieto, figuriamoci se vogliamo impedire al Molleggiato di esternare in tivù ciò che gli garba. Da questo genere di invasioni ci si difende facilmente: basta spegnere il televisore. Il problema è un altro. Siamo affezionati a zio Celentano, considerandolo un artista eccellente che ha allietato con la sua voce una parte della nostra giovinezza. Gliene siamo grati. Ma non riusciamo a capire perché un personaggio simile, un campionissimo del trullallerotrullallà, debba offuscare la sua buona fama intervenendo in modo sgangherato nel cosiddetto dibattito politico, oltretutto in un periodo prelettorale. D’accordo, anche noi giornalisti, spesso ospiti di talk show, spariamo raffiche di sciocchezze delle quali dovremmo vergognarci. Ma proprio per questo non sentiamo il bisogno di udire quelle di Celentano spacciate quali verità evangeliche. Fossero almeno stupidaggini cantate: forse le ascolteremmo volentieri. Invece, cascano lentamente dalle labbra di Adriano che dà la spiacevole sensazione di essere stitico di bocca. Risultato, dopo aver concionato svariati minuti, Celentano non ha ancora espresso la sua idea, non perché non ne abbia una, ma perché ne ha troppe. Lo abbiamo verificato ieri non in tivù, bensì su L’Espresso che pubblica nel numero in edicola una intervista all’ex ragazzo della via Gluck in cui questi affronta l’intero scibile politico. Afferma di avere un debole per Giuliano Pisapia. Perché? «È l’unico sindaco che abbia la faccia da bambino; dice cose importanti però con l’entusiasmo di quel bambino che in lui non è mai morto». Confessa che in passato, nel 1994, «votò Silvio Berlusconi che non ha mai creduto essere un mafioso». Più avanti ammette di «aver avuto fiducia nella Lega di Umberto Bossi e anche nei Verdi». Massì, per un breve periodo - aggiunge - «ho parlato bene di Walter Veltroni; ne apprezzai il coraggio di correre da solo». Non ha dubbi: tra Fini e Berlusconi sceglie il primo. Quanto a D’Alema? «Mi è sempre piaciuto». E che ne pensa di Pier Luigi Bersani, segretario del Partito democratico? «Bravo!». Ma il più rock è e rimane «Antonio Di Pietro, un politico che, assieme a Beppe Grillo, persegue la verità anche a costo di perdere qualche voto». Un giudizio sulla battaglia del fondatore del movimento Cinque stelle? «Grandiosa». Non poteva mancare una leccatina a Saviano e a Fabio Fazio: «Mi hanno convinto». Ecco, questo è Celentano. Non si è fatto mancare niente. Ha pascolato su tutti i prati e continua a brucare. Dove c’è foraggio c’è anche lui. Da uno così non si è mai finito di imparare a campare. Giusto offrirgli una cattedra in tivù: è un italiano vero.