L'editoriale

Andrea Tempestini

Qualche lettore mi ha rimproverato per l’articolo di ieri sull’impoverimento delle famiglie. A uno in particolare non è piaciuto il giudizio sui disoccupati, i quali a mio parere sono tali soprattutto perché non accettano un lavoro diverso da quello che si sono prefissati.  «Lei non sa di cosa parla e non capisce il dramma delle persone che non hanno un posto», mi ha ammonito. Ammetto: il periodo di disoccupazione più lungo che ho patito in vita mia è durato undici giorni. Dunque non ho un curriculum minimo per dare lezioni a chi l’impiego non c’è l’ha. Però anch’io come altri prima di strappare un contratto fisso ho dovuto sudare, accontentandomi di lavoretti o posti diversi da quelli ambìti. Per almeno tre anni sono stato quello che si dice un precario, poi alla fine ce l’ho fatta. Si dirà: altri tempi. All’epoca - oltre trent’anni fa - il mercato del lavoro tirava e bastava spedire una decina di lettere per essere richiesti. Mica vero: tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta le aziende licenziavano di brutto e non era facile sistemarsi. Ma lasciando perdere i fatti miei, che non sono certo rilevanti, non voglio sottrarmi al rimprovero e cerco di spiegarmi meglio di quanto abbia fatto ieri. Secondo l’Istat, per effetto della crisi economica nel 2010 si sono persi oltre mezzo milione di posti: quasi tutti nell’industria. Per contro però se ne sono guadagnati quasi 200 mila in settori tipo l’edilizia, l’agricoltura, la sanità e il lavoro domestico. Il problema è che questi lavori sono stati occupati dagli stranieri. Non intendo negare le difficoltà del mercato, ma provate a immaginare se questi impieghi fossero stati accettati dagli italiani: non avremmo 200 mila disoccupati in meno? Si dirà che questi posti non sono qualificati e che per persone con titolo di studio sarebbe poco dignitoso accettarli. Ma è proprio questo il problema. Noi, intendo dire le generazioni  dal dopoguerra in poi, siamo cresciuti convinti che una laurea fosse la chiave per ottenere l’elevazione sociale e che bastasse quella per non fare più il lavoro su cui si erano spaccati la schiena i nostri padri. Molti hanno pensato - e ancora pensano - che il mercato del lavoro sia infinito e che ci sia o ci debba essere posto per tutti. Purtroppo non è così e nel futuro lo sarà sempre di meno, soprattutto se lo sviluppo dei Paesi fino ad oggi svantaggiati crescerà. Il lavoro migliore, quello meglio remunerato, quello ad alto valore aggiunto, si sposterà dall’Occidente verso l’Asia o verso il Sudamerica. La produzione emigrerà, perché là ci saranno i lavoratori più qualificati e più professionalizzati. Da noi rimarranno i servizi o i posti meno allettanti. È immaginabile che tutti possano trovare impiego nei servizi? Ovviamente no. E allora cosa resterà se non l’occupazione che un tempo veniva scartata perché giudicata non adatta al curriculum scolastico conseguito? Ahimé l’Italia è vittima di un equivoco e cioè che il percorso scolastico sia una variabile indipendente dal mercato del lavoro. Anziché stabilire quanti ingegneri ci servono indirizzando i ragazzi verso questo corso, si lascia che l’iscrizione all’università sia affidata alla moda. Con il risultato che vi sono cicli in cui abbondiamo di medici e altri in cui i dottori in scienze politiche sono un esercito.  La stessa cosa accade alle scuole superiori: tutti vogliono fare il liceo, perché pensano poi di diventar professore o  giornalista. Pochi pensano alle scuole professionali per diventare perito industriale.  Non sono fesso e so bene che sui giovani ha più presa l’idea di fare il dottore o il prof piuttosto che il tecnico di una macchina a controllo numerico. Così come è comprensibile che pochi italiani abbiano voglia di lavorare vicino ad un altoforno e infatti quasi tutti lasciano posto ai senegalesi. Ma chi regge le briglie del carrozzone che si chiama Stato ha il compito di instradare il Paese e i suoi cittadini nella direzione giusta e, talvolta, anche di dire cose spiacevoli. Anziché piangersi addosso, come hanno fatto alcuni giornali ieri, per gli oltre 2 milioni di giovani che non hanno un lavoro, non lo cercano e neppure si  sottopongono a un corso di formazione professionale, c’è da chiedersi come mai questi giovani non hanno voglia di lavorare o di studiare. Altro che sfiducia nelle nuove generazioni: qui siamo di fronte a ragazzi viziati i quali non si rendono conto che il futuro rischia di essere peggiore di quanto viene loro offerto oggi. Mi ha molto colpito ieri l’intervento di Mariastella Gelmini nella sala conferenze della Camera. Presentando il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale, il ministro ha rivelato che in Italia ogni anno c’è bisogno di circa 110 mila periti, ma le aziende non li trovano. Mi sono informato: il dato è stato elaborato da Unioncamere e direi che, fatta la tara  alle statistiche, è affidabile. Mentre cioè ci si lamenta della disoccupazione, mentre i giovani si annoiano ma non pensano al loro futuro, mancano oltre centomila persone che facciano un lavoro professionale nelle medie e piccole industrie. Vi pare poco? Forse non sarà uno spazio nel mercato in grado di riassorbire tutti i disoccupati, ma di sicuro li ridurrà e aiuterà a far ripartire le imprese. Però, per occupare quei posti, bisogna capire una cosa. Ossia che il lavoro non è una scrivania o una cattedra, una poltrona in tv o una in un centro di design, ma è anche altro. Anzi: è soprattutto altro.