L'editoriale

Giulio Bucchi

Puntuale come la primavera, anche quest’anno è arrivata la statistica che denuncia l’impoverimento degli italiani. Secondo la rilevazione, uno su quattro sarebbe al verde e vivrebbe con l’incubo di finire su una panchina. Per campare molti avrebbero dato fondo ai risparmi, intaccando quanto faticosamente messo da parte o, peggio, vivendo di debiti. Dati disastrosi, ma da prendersi con le molle. Fosse vero che 15 milioni di italiani sono bisognosi, dovremmo avere i marciapiedi affollati di mendicanti: in realtà un certo numero vi soggiorna, ma si tratta quasi sempre di indigenti d’importazione, che qui hanno trovato la Mecca e il modo di sbarcare il lunario. Intendiamoci: non ho intenzione di sostenere che le cifre diffuse siano fasulle né che l’economia vada a gonfie vele o che le famiglie se la spassino. Ce ne sono parecchie che tirano la cinghia perché faticano ad arrivare a fine del mese, ma definirle povere, credo, sarebbe offensivo per i poveri veri. Sono poche infatti quelle che rinunciano a beni non di primissima necessità, altrimenti non si spiegherebbero gli incrementi nelle vendite di tv a schermo piatto e telefonini  di ultima generazione, generi di cui siamo diventati maniacali consumatori. La verità è che i numeri vanno letti e, qualche volta, si tratta di intendersi sull’uso delle parole. Prendete per esempio la disoccupazione. In base al rapporto, nell’ultimo biennio si sarebbero persi oltre mezzo milione di posti di lavoro, una caduta registrata principalmente nell’industria. Un bilancio allarmante. Ma mentre l’indagine segnala il flusso negativo e i siti online lo rilanciano a dimostrazione dell’avvenuto impoverimento, nessuno si prende la briga di confrontare il dato con l’incremento riguardante le assunzioni di lavoratori stranieri. Lo scorso anno 183mila immigrati sono stati ingaggiati nei più svariati settori: dall’edilizia all’agricoltura, dalla sanità all’assistenza domestica. Secondo la ricerca più della metà hanno trovato una «professione non qualificata», vale a dire che sono stati assunti come manovali, braccianti, portantini o colf. Lavori  spesso di fatica, ma pur sempre lavori capaci di sfamare una famiglia. Fossero davvero sull’orlo della povertà, i candidati alla panchina rinuncerebbero al posto per lasciarlo ad altri? Ciò dimostra che non sono alla canna del gas, ma piuttosto attendono un incarico ritenuto consono alle loro aspettative. Hanno studiato e sono convinti che a loro sia dovuta una scrivania o un impiego adeguato alla laurea. Anche molti extracomunitari hanno studiato: tra quelli regolari ce ne sono poco meno di un milione che hanno un livello di istruzione e un profilo culturale più elevato di ciò che è richiesto dal loro incarico. Ma volendo mangiare si accontentano di quel che trovano. Ciò dimostra che il lavoro c’è, ma manca la voglia di farlo. Oppure che la povertà è un concetto molto relativo, difficilmente spiegabile dalla statistica: una sensazione più che un dato di fatto. C’è un altro aspetto che le indagini non chiariscono. Pur rilevando «la forte capacità dell’economia italiana di generare occupazione, per l’effetto congiunto delle riforme del mercato del lavoro e dello sviluppo di attività ad alta intensità di manodopera», la produttività è cresciuta poco, quando addirittura non è caduta. Colpa del mercato o dell’alta conflittualità? È effetto della poca competitività dei prodotti o dei troppi scioperi delle maestranze? La rilevazione non aiuta a capire. Si comprende però una cosa: che nell’ultimo anno le retribuzioni dei dipendenti sono aumentate. Poco cosa, appena un punto percentuale, ma sempre meglio di quelle di altri Paesi che sono state costrette a sforbiciarle. E a proposito di tagli: in Grecia si segnala che, a causa del crac finanziario, una delle più importanti multinazionali farmaceutiche ha deciso di non vendere più i suoi medicinali. Stanca di far credito al governo di Papandreou, ha deciso di ritirarsi. Immaginate come saranno contenti i malati costretti a rinunciare alle cure. In quel caso si può parlare di nuovi poveri. Chi non ha più la possibilità di accedere all’assistenza e ai sussidi sociali è davvero un indigente. E non è solo un modo di dire.