L'editoriale
È difficile che Giulio Tremonti dia ragione a qualcun altro che non sia se stesso. Ieri però è successo. Sebbene non abbia citato Libero, il ministro dell’Economia ha riconosciuto che le nostre tesi sull’Europa non sono proprio così balzane come appaiono ad alcuni. Intervenendo all’Europarlamento ha infatti detto le stesse cose che noi andiamo scrivendo da giorni, ovvero che così com’è l’Unione non va. Ovviamente lo ha fatto con parole sue, ovvero con frasi ovattate da professore abituato ai convegni e alla forma, ma quel che conta è la sostanza. E quella è chiara, semplice e virgolettabile: «I trattati europei sono stati scritti prima della globalizzazione e pur essendo stati adattati sono il prodotto di un mondo passato». Come dire che la Ue o si dà una mossa o finisce male. E infatti Giulio ha aggiunto che i guai di questo periodo possono «essere una ragione per pensare una nuova e spero ancor più intensa convenzione, cogliendo il momento», sollecitando una modifica dei patti su cui essa si fonda. A questa conclusione il ministro è arrivato riflettendo sulla crisi finanziaria, ma pure su quella geopolitica che sta dando luogo a migrazioni verso il Vecchio Continente, con il solo punto d’approdo dell’Italia. Come scrivevamo ieri, l’Unione ha fatto il suo dovere quando s’è trattato di tenere a bada i crac bancari e evitare la bancarotta di qualche Paese. Ma allorquando ha dovuto occuparsi di extracomunitari e clandestini ha alzato bandiera bianca. Anzi, è tornata ai vecchi egoismi nazionali, chiudendo le frontiere e disinteressandosi di ciò che accade oltre confine. Invece di decidere una politica comune di respingimenti o di accoglienza, ma anche di finanziamenti a chi gli immigrati se li tiene (così come prevede l’articolo 80 della Convenzione), l’Europa ha mostrato il volto arcigno e un po’ opportunista di sempre. Con i Paesi più forti - in questo caso Francia e Germania - intenti a farsi i fatti loro senza curarsi degli altri. Se la questione dei profughi è quella che ha lasciato in mutande la Ue, evidenziando l’inadeguatezza della struttura che si è data, non c’è però solo quella. Ci sono anche faccende che riguardano lo sviluppo, come ad esempio il nucleare. È bastata la paura di quel che è successo in Giappone perché i soliti due, cioè Francia e Germania, calassero le braghe e annunciassero il rallentamento quando non la sospensione dei loro piani di investimento nell’atomo. Una scelta ipocrita, perché, nonostante questa dichiarazione, Sarkozy continuerà ad avere il maggior numero di centrali alimentate a fissione e la signora Merkel per smantellare le sue avrà bisogno di anni. L’unica vera ripercussione l’avranno gli Stati come l’Italia, i quali non avendo alcun impianto del genere ora sono costretti a rinunciarvi seguendo il cattivo esempio degli alleati più importanti. Con il risultato che, cedendo al tornaconto elettorale, i tedeschi e i francesi continueranno nonostante tutto ad avere l’energia a prezzi modici mentre noi la pagheremo cara. Non sarebbe stato meglio fare una riunione fra i Paesi membri dell’Unione e decidere quale linea adottare e su quali sistemi puntare per garantire energia per tutti? Lo sviluppo passa dalle fonti che lo possono alimentare e dunque se questa non è una scelta cruciale è difficile che lo possa essere lo studio della curvatura delle banane in cui si impegnano alcuni euroburocrati di stanza a Bruxelles. Invece, come sugli immigrati, anche sull’energia l’Europa si è distinta per la sua latitanza. Tralascio la politica estera, che pure ci costa un botto giacché l’Unione si è dotata di ambasciatori e funzionari manco fosse un Paese vero e non un’accozzaglia di Stati che non hanno una linea in comune ma tante linee quante le capitali che la compongono. L’andamento della guerra di Libia, come abbiamo già scritto, testimonia il fallimento delle ambizioni di contare qualcosa e di sedersi al tavolo come una grande potenza. Insomma, a modo suo, dicendo cioè che l’Europa è «missing in action, anzi in non action», cioè scomparsa, inesistente, Tremonti ha confermato ciò che noi comuni mortali di Libero scriviamo con parole semplici, comprensibili anche a chi è in coda dal salumiere. E a proposito di pizzicagnoli e bottegai vari, come avete letto nel titolo di apertura, il nostro Bechis ha fatto un po’ di conti per capire come stavamo prima dell’euro e come ce la passiamo ora che dall’addio alle vecchie e svalutate lirette sono passati nove anni. Risultato: nel decennio che ha preceduto l’avvento della moneta unica l’Italia correva due volte di più rispetto al resto del mondo nel suo complesso. Nonostante Giuliano Amato e Romano Prodi, non ce la spassavamo ma ce la cavavamo bene, con tassi di crescita di tutto rispetto: consumi in salita e disoccupati in discesa. Con l’arrivo della nuova valuta, invece, il Paese ha frenato ed è finito per correre un quarto di quel che fa il resto del mondo. Ora, fermo restando che dell’euro, come di Napolitano e dei magistrati, non si può parlar male perché l’adesione alla moneta comunitaria è un atto di fede più che di testa, ci permettiamo una domanda semplice e forse anche un po’ volgare. Ma non è che con l’euro qualcuno ci ha tirato una sòla?