L'editoriale

Andrea Tempestini

Silvio Berlusconi ci ha abituato a un comportamento che nessun leader prima di lui ha mai avuto: nei momenti più difficili, quando pare sull’orlo del precipizio, invece di mostrarsi accigliato manifesta maggiore allegrezza, ridendo e scherzando come se nulla fosse.  Lo ha fatto anche ieri, all’incontro con le giovani promesse italiane, presentandosi sorridente e ironizzando sui guai giudiziari e sul bunga bunga, quasi che la raffica di processi in corso a Milano gli facesse solletico. L’atteggiamento fa irritare molto la sinistra, che lo vorrebbe serio e depresso come si conviene a un presidente del Consiglio e per questo lo accusa di incoscienza, descrivendolo al pari di un vecchio satrapo che si diverte mentre il Paese va in malora. Da questo punto di vista niente di nuovo, direi. Ma da ultimo, complice la crisi economica e quella nel Maghreb, le critiche hanno fatto breccia in una parte di elettorato moderato, la quale inizia a interrogarsi se il premier sia in grado di far fronte a una situazione complessa come quella attuale e non sia giunta per lui l’ora di passare la mano. Lo vedono troppo concentrato sulle sue grane e distratto su quelle nazionali e internazionali e si domandano se non sia arrivato al capolinea, come capita a chiunque, dunque anche ai grandi. Qualche motivo per porsi la questione ovviamente ce l’hanno.  Per sua stessa ammissione sulla testa, senza cioè  che qualcuno lo interpellasse, gli è passata la detronizzazione dell’ottavo re di Roma, quel Cesare Geronzi che ha fatto e disfatto la finanza italiana degli ultimi anni. Meglio non è andata con la guerra di Libia e pure con i clandestini sbarcati dalla Tunisia e rimbarcati dalla Francia sulle nostre spalle. Perfino sulla giustizia e sulla sua conduzione in Parlamento c’è una tale confusione che dà adito a dubbi e fa temere il peggio. Ma visto che la domanda è lecita e si tratta di capire se Berlusconi sia o meno bollito, converrà procedere per gradi, cercando di analizzare ad una ad una le faccende. Cominciamo dalla prima, cioè dal banchiere trasformatosi in assicuratore ed infine in disoccupato.  La partita disputata sulle spalle dei risparmiatori e del mercato l’ha spiegata bene ieri Vittorio Feltri. In ballo c’è uno scontro in cui sono coinvolti i cosiddetti poteri forti, i quali non amano e non hanno mai amato il Cavaliere. Fosse stato per loro non sarebbe mai arrivato a Palazzo Chigi. Nonostante infatti sia un imprenditore, cioè teoricamente uno di loro, lo ritengono un parvenu, uno che non ha i quarti di nobiltà e non sa stare seduto a tavola con il potere economico. Si è fatto da sé e senza l’aiuto loro, dunque non è soggetto agli obblighi e alla riconoscenza che lega gli oligarchi della finanza. Geronzi, che pur appartenendo al giro dei potenti era troppo legato a lui avendolo aiutato quando non era nessuno, era dunque d’intralcio. Troppo poco omogeneo alla cricca di Mediobanca, troppo integrato con la cricca di Letta. Per cui via, senza troppi complimenti. E soprattutto all’insaputa di Berlusconi, che ne è venuto a conoscenza quando ne siamo venuti a conoscenza noi, cioè a cose fatte. È una sconfitta per il Cavaliere? Sì, ma è anche il segnale d’inizio delle ostilità, cioè di una manovra di accerchiamento che punta a conquistare il Corriere, Mediobanca e probabilmente Confindustria per poi cercare di dare scacco al re. Una partita che però è appena cominciata e non con un matto. Per cui vedremo le prossime mosse. La seconda questione è quella della Libia. La quale a prescindere dai torti di Gheddafi, che ci sono e pure tanti, è come abbiamo spiegato tutta interna alla Francia. Non ci fosse state le elezioni presidenziali che Sarkozy rischia di perdere e non avesse avuto Parigi  bisogno di allargare i confini della propria economia, probabilmente non ci sarebbe stata nessuna guerra. Gli americani non si sarebbero fatti coinvolgere in un conflitto di interesse dubbio e lo stesso avrebbero fatto gli inglesi. Ma la Francia aveva urgenza di muovere le truppe e soprattutto aveva necessità di farlo a danno dell’Italia, bypassandoci  sia nell’azione militare che nel dialogo con i ribelli. Il nostro Paese è per ragioni storiche un partner dello Stato africano e Berlusconi si era speso fino a baciare la mano al leader libico pur di migliorare le relazioni con Tripoli. Non siamo stati scavalcati per caso e nemmeno per incapacità del Cavaliere. Si è trattato di una scelta, perché dichiarando guerra alla Libia, la Francia in realtà intendeva dichiarare una guerra economica all’Italia e, come in ogni conflitto che si rispetti, la sorpresa ha premiato gli attaccanti. Ma le battaglie sono tante e finora noi abbiamo assistito soltanto alla prima: dirà il tempo se Berlusconi è un comandante in campo capace di reagire e rovesciare il fronte. Superata l’incertezza dei primi giorni, il governo ha fatto le sue scelte e giocato la carta di sostenere gli insorti. Vedremo tra un po’ se si trattava di un asso o di una scartina. La faccenda che fa più dubitare della capacità del premier di far fronte agli eventi è però la terza, ossia la questione degli immigrati. Ai più non è piaciuta la gestione dell’emergenza. La gita a Tunisi è stata giudicata   un fallimento e anche il tentativo di forzar la mano ai francesi e di scaricare i clandestini di là dalla frontiera è parso debole e poco convincente. I dubbi sono giustificati e il governo si è fatto cogliere impreparato nonostante gli sbarchi fossero attesi. Ciò detto, realisticamente, che altro si poteva fare? Buttare a mare gli stranieri giunti a Lampedusa non era possibile e neppure si poteva trasformare l’isola in una colonia penale in cui segregare i clandestini. Il solo modo di affrontare i problema era di sistemarli qua e là, dispersi lungo la Penisola. I luoghi non erano pronti all’accoglienza e se anche lo fossero stati, gli abitanti dei centri prescelti non avrebbero accolto comunque ben volentieri i profughi. Le proteste sarebbero state uguali e la confusione altrettanta. Meglio non sarebbe andata neppure se ci fossimo precipitati a Tunisi qualche settimana prima per tentare un accordo. Le intese forti si fanno con i governi forti. Con quelli deboli è meglio non farle perché non servono a nulla giacché non sono in grado di farle rispettare. Certo, si poteva protestare di più con la Francia, chiedendo che aprisse la frontiera a una banda di disperati che sogna Parigi, mica Roma. Ma se i cugini difendono i confini che si fa? Li si bombarda come ai tempi di Mussolini? Si mandano i Bersaglieri capeggiati da La Russa all’assalto di Mentone? Diciamoci la verità, non c’era alternativa se non quella di lasciar gestire la cosa alla sinistra, la quale ci avrebbe piazzato una bella sanatoria capace di richiamare altri immigrati. In questo caso non c’è la bacchetta magica, al massimo si può disporre del buon senso e della pazienza. Ci dovremo attrezzare per farli emigrare pian piano, evitando che altri ne arrivino. Del resto a fermarli o evacuarli non è riuscito nessuno. Anzi, gli altri hanno fatto peggio. La sinistra, cominciando da Martelli per finire a Livia Turco e Napolitano, ha fatto leggi che regolavano più l’accoglienza che i respingimenti. Con il risultato che oggi ci ritroviamo alcuni milioni di stranieri. Cinque per l’esattezza, non ventimila che sono quelli giunti a Lampedusa. Infine la giustizia. Non passa giorno che il centrodestra non se ne inventi una. Il processo breve e il processo lungo. Il conflitto d’attribuzione e la responsabilità civile dei magistrati. Il troppo stroppia. Ma il troppo è figlio di una guerra che va avanti da diciassette anni, nessuno dei quali trascorsi senza che non spuntassero uno o più procedimenti e accuse. Quella di Berlusconi è una specie di legittima difesa, null’altro che un modo per schivare colpi sotto la cintura che avrebbero tramortito chiunque. Se per incastrarlo c’è chi inopinatamente allunga i tempi della prescrizione e lo accusa di aver corrotto un testimone anche se non vi è traccia di un pagamento, il Cavaliere si difende accorciando i tempi a disposizione dei magistrati per condannarlo. Se i pm ne inventano una al giorno pur di spiarlo e intercettarlo, violando anche le norme che tutelano i parlamentari, lui reagisce proibendo le intercettazioni. Quella a cui assistiamo è una guerra senza quartiere e purtroppo ogni tanto fa vittime collaterali e oltre a far venire un po’ di noia, perché vorremmo finirla di passare il nostro tempo a discutere dei processi e delle accuse a Berlusconi. Purtroppo i primi a non sembrare annoiarsi mai sono i procuratori, per cui tocca andare avanti. Ciò detto, ci pare d’aver spiegato che dubitare di Berlusconi è legittimo, anche perché talvolta lui contribuisce ad alimentare i dubbi compiendo errori e passi falsi come con le cene ad Arcore. Ma in fondo è ancora il meglio che passa il convento. O se volete, il meno peggio. Per cui, teniamocelo stretto. E se proprio non ce la fate a sentire l’ennesima barzelletta sconcia, turatevi le orecchie e pensate che oltre a non ridere la sinistra si incazzerà ancora di più.