L'editoriale

Giulio Bucchi

Ciò che sta facendo Giorgio Napolitano è certamente irrituale. In passato avevamo visto presidenti della Repubblica convocare al Quirinale i controllori di volo per indurli a desistere da uno sciopero (Pertini). Altri che invece intervenivano, senza dirlo direttamente, su leggi in fase di definizione (Ciampi). E altri ancora che esercitavano una sorta di tutela sull’esecutivo al punto da farne governi del presidente (Scalfaro).  Tutti compiti ovviamente non di competenza del capo dello Stato, al quale secondo la Costituzione spettano diverse funzioni, non certo quella di risolvere vertenze, scrivere leggi  o guidare governi. Ma quanto sta facendo Napolitano supera tutte le esondazioni di ruolo compiute dai suoi predecessori, facendole sembrare al massimo fuorigioco e non falli. Dopo la bagarre dei giorni scorsi a Montecitorio, l’inquilino del Colle ha convocato i capigruppo della Camera, esautorandone di fatto il presidente, il quale è il solo che ha titolo di vigilare sul corretto funzionamento dell’istituzione. Nonno Giorgio invece lo ha ignorato manifestamente. Non si è rivolto a lui per sollecitarlo a una conduzione equilibrata del consesso al fine di consentire la prosecuzione dei lavori parlamentari. Né lo ha convocato per sapere cosa fosse successo da rendere l’aula più simile a una corrida che a un parlamento. Napolitano lo ha semplicemente scavalcato, come non esistesse, facendo lui quello che avrebbe dovuto fare Fini e cioè chiamando i presidenti dei gruppi per sentire le loro ragioni e per manifestare le sue preoccupazioni. Come dicevamo la mossa è senza dubbio irrituale e apre la strada a un ruolo sempre più politico della presidenza della Repubblica, la quale interviene come se fosse non più la garante suprema degli equilibri del Paese, ma quasi come una parte in gioco, che corregge e smussa decisioni e situazioni. Ci sarà tempo ovviamente per valutare se questo sia un bene o un male o se sia il preludio della nascita di un partito del presidente, il quale - sia detto per inciso - ogni giorno che passa appare sempre più il solo candidato spendibile dal centrosinistra in caso di elezioni. Non è di questo comunque che ora ci vogliamo occupare, ma dell’esautorato, ovvero dell’inquilino di Montecitorio, il quale in questo momento rappresenta il vero problema da superare per garantire un corretto funzionamento delle istituzioni. Fini in questi mesi ha sempre detto che essere capo di un partito all’opposizione e contemporaneamente terza carica dello Stato non è d’intralcio allo svolgimento delle sue funzioni, sostenendo d’aver sempre assicurato imparzialità nelle sue decisioni di presidente della Camera.  I fatti di questi giorni dimostrano il contrario. Già se ne aveva avuta prova la settimana scorsa, quando il leader dell’Italia dei valori aveva potuto insultare il capo del governo e il ministro degli Esteri, dando loro dei conigli senza che Fini intervenisse per ammonirlo. Anzi: il numero uno di Montecitorio aveva accolto sghignazzante gli insulti all’esecutivo. Ma  mercoledì e giovedì è andato oltre. Mentre era in corso un vivace scambio di battute tra Ignazio La Russa e parte dell’opposizione, la quale lanciava contro il rappresentante del governo ogni genere di insulto, Fini ha interrotto e ripreso solo il ministro della Difesa, il quale poi ha reagito - sbagliando - nel modo che è noto. Un atteggiamento che rivela parzialità e animosità nei confronti dell’ex alleato.  Altra scena giovedì, quando si è trattato di votare il processo verbale. Quattro ministri erano già in aula, pronti a pigiare il pulsante, ma Fini ha dichiarato chiuse le votazioni, escludendo i rappresentanti del governo. Tra i quali la responsabile dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, graziosa signora che pur non essendo sospettabile di inimicizia nei confronti di Gianfranco ha reagito piccata alla decisione. I tre episodi, accaduti a poca distanza uno dall’altro, dimostrano due cose. La prima è che il presidente della Camera non ha il polso per tenere sotto controllo una situazione che rischia di travolgere l’istituzione da lui rappresentata e insieme con essa anche la legislatura. La seconda è che Fini non ha l’equilibrio necessario per continuare a sedere sullo scranno più altro di Montecitorio: la sua militanza politica lo mette di fatto in una situazione di conflitto di interessi, impedendogli di esercitare le funzioni con la lucidità e la serenità richieste. La situazione in cui il leader di Futuro e libertà ha fatto precipitare le istituzioni ha una sola via d’uscita ed è quella da noi indicata mesi fa, quando individuammo le criticità del doppio incarico. Fini si deve dimettere, dedicandosi a tempo pieno  all’attività che ora svolge nascosto dietro il banco di presidente della Camera. Se davvero gli stanno a cuore le istituzioni, come predica con insistenza, rinunci alla presidenza di Montecitorio e faccia una battaglia politica leale e a viso aperto, dimostrando di  non avere attaccamento alla poltrona ma di voler davvero scommettere su una fase nuova della vita politica di questo Paese. Se non lo farà, come temo, dimostrerà soltanto pavidità e continuità con la vecchia politica. Quella in cui è cresciuto e di cui si è nutrito. La politica dei furbi e degli espedienti.