L'editoriale

Giulio Bucchi

Martedì sera, quando le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia del fermo di Manuel Winston, cameriere filippino, vent’anni dopo l’omicidio della sua datrice di lavoro, Alberica Filo della Torre, colpita alla testa con uno zoccolo all’Olgiata (Roma), siamo stati percorsi da un brivido: caspita, abbiamo pensato, la giustizia sarà lenta, aborrirà il processo breve, però ha memoria d’elefante, che notoriamente compensa la sua scarsa rapidità di movimenti con una capacità prodigiosa di ricordare tutto. Al brivido è seguito il panico, perché oltre mezzo secolo fa, confessiamo, commettemmo un reato e non vorremmo che adesso si presentassero i carabinieri in redazione per farcela pagare. Un reato non gravissimo, però neanche da sottovalutare: furto di ciliegie. Ci arrampicammo sulla pianta, noi e altri ragazzacci, e facemmo una scorpacciata di frutti, purtroppo interrotta da alcune fucilate. Il contadino ci aveva sorpresi e, incavolato nero, imbracciò la doppietta caricata a sale e premette il grilletto due volte. Una precipitosa fuga non servì ad evitare che vari granelli del minerale si conficcassero nelle nostre gambe. Un bruciore insopportabile che tuttavia non ci impedì di dileguarci. Per un paio di mesi vivemmo nel terrore di una denuncia, di un processo e di una punizione. Invece, non accadde nulla. Ma ora, se il pachiderma giustizia si risvegliasse, che figura faremmo? Vedo già il titolo: Feltri rubò, ladro pure lui. Oddio, qualche ciliegia ingoiata “di sfroso” non è paragonabile a un omicidio, ma se questi sono i metodi e la celerità dell’apparato giudiziario non c’è da dormire fra due guanciali. Massì, conviene metterla sul ridere. Non tanto, però. Apprendiamo che la chiave del giallo dell’Olgiata, anche in questa circostanza come in quella del delitto di via Poma, sta nel ritrovamento del Dna dell’assassino (presunto, ci auguriamo). Dove è avvenuto tale ritrovamento? Fra gli oggetti sequestrati il giorno del fattaccio, c’era un fazzoletto nel quale, forse per motivi di delicatezza di stomaco, gli investigatori dell’epoca non ficcarono il naso. Oggi, a distanza di un ventennio, vinta la ripugnanza, inquirenti rotti ad ogni schifezza hanno esaminato il reperto. Ed ecco la sorpresa: toh, il Dna! Che è diventata una parolina magica in cui è racchiusa la soluzione di qualsiasi mistero, purché vecchio e rancido. Senza indugio, hanno ingabbiato il succitato filippino, ed ora sono razzi suoi, altro che quelli contro Gheddafi. Seguirà rinvio a giudizio, dodici puntate di Porta a Porta, discussioni accese fra lo psichiatra Crepet e la giudice Matone, il solito rito e, suppongo, la condanna. Esattamente come è avvenuto per il disgraziatissimo fidanzato della ragazza uccisa in via Poma. Il quale fidanzato per quattro lustri è stato lasciato in pace e, tutto ad un tratto, inchiodato dal prodigioso coso, il Dna, recuperato - ben maturo, almeno quanto le nostre ciliegie - sul reggiseno della vittima. Si dirà, meglio tardi che mai. Ma noi siamo assaliti da dubbi: sicuri che questo benedetto Dna sia infallibile al pari del Papa (non scomodiamo Dio perché non lo conosciamo)? Se inoltre trattasi di Dna anzianotto e probabilmente acciaccato, chi ci assicura sulla sua attendibilità? Una giustizia che viaggia alla velocità della luce spenta va presa sul serio? Ci sia consentito di essere perplessi. E di aver paura anche di quei magistrati con l’indole degli storici. Recentemente il famoso pm Ingroia ha fatto riesumare la salma del bandito Giuliano, perito nel 1950. Voleva accertarsi sulle cause del decesso: pistola o raffreddore o forse problemi di prostata? E alcuni anni orsono, un giudice di cui non rammento il nome, fece fare una ricognizione sul cadavere di Enrico Mattei non per verificarne lo stato di conservazione, bensì per capire come mai fosse finito nella bara e se esistessero o meno gli estremi per riaprire l’inchiesta. Se fossero barzellette sarebbero divertenti. Ma è realtà. Non strappatevi i capelli, ma se strappate il certificato di nazionalità italiana non avete torto.