L'editoriale

Andrea Tempestini

Nota. Vittorio Feltri nell'editoriale di oggi risponde a Nicholas Farrell: leggete le opinioni sul conflitto in Libia del giornalista inglese trapiantato nella "rossa" Romagna. Caro Farrell, ti prego, non perdere l’aplomb che ti rende simpatico e apprezzabile. Per difendere le tue opinioni - discutibili come tutte le opinioni - non c’è bisogno di offendere gli italiani in blocco con espressioni volgari e avventate. Siamo cinici e attaccati solo al denaro, mentre voi ubbidite al senso del dovere? Detto da un inglese fa ridere. Spero sia una battuta umoristica. Desidero ricordare che il tuo Paese (considerato la Madre della civiltà democratica) si è distinto per una secolare ricerca, direi ossessiva, della ricchezza a ogni costo, anche quello di eleggere a metodo militare ed economico il colonialismo. L’Inghilterra ha sottomesso, ricorrendo anche a brutalità, i popoli di mezzo mondo e non ha, quindi, le carte in regola per impartire lezioncine all’Italia, neppure per le sue trascorse velleità di conquistare un fazzoletto di Africa. È vero che il petrolio si compra, ma ti segnalo un particolare: prima di venderlo occorre estrarlo. In Libia è stato estratto da un signore che si chiamava Mattei. Mai sentito parlarne? Era il presidente dell’Eni. Da Mattei in poi, e forse anche prima, noi il petrolio lo abbiamo sempre pagato il giusto prezzo. Se Gheddafi scomparisse, andremmo ad acquistare l’oro nero altrove, saldando il conto con l’oro giallo, come già facciamo, visto che dalla Libia otteniamo soltanto il 25 per cento del petrolio necessario. Il punto fondamentale è un altro. La Francia - e Libero lo ha scritto, unico giornale in Italia - ha fornito armi ai ribelli, ha contribuito ad organizzare la rivolta in Cirenaica. Secondo te ha agito per beneficenza? Questa non è nostra dietrologia. Semmai sei tu ad essere ingenuo oltre che supponente. Libero - non tutti gli italiani - ha fatto un ragionamento. È ammissibile accendere la miccia di una guerra civile? Sarkozy l’ha accesa. Perché? Non si ingerisce nei fatti interni di un Paese (in questo caso la Libia), non si appoggia una fazione senza sapere quali siano le sue intenzioni, i suoi obiettivi. Tu dici che non abbiamo intervistato i ribelli, pertanto ignoriamo se siano migliori o peggiori del dittatore che mirano ad abbattere. È così. ma li hai forse intervistati tu? No. E allora perché tu ti impanchi a professore e tratti noi da imbecilli furbastri? Come fai ad asserire che gli insorti «vogliono installare una democrazia di matrice occidentale»? Chi te lo ha confidato, l’uccellino della comare? Ti sciacqui la bocca con frasi roboanti, fai il moralista e tacci noi di cinismo e astuzia levantina, poi ti fai sfuggire dalla penna questo bel brano di prosa: «quanto ai clandestini basta mandarli indietro, tanto non provengono dalla Libia». Stupenda soluzione, molto umana. Mandare indietro i clandestini: come, a fucilate? Cinico sei tu. Padronissimo di esserlo. Ma abbi almeno il pudore di parlare a tuo nome, non per conto dell’Inghilterra. E adesso scusate se passo a un argomento che con la guerra c’entra come i famosi cavoli a merenda. Italo Bocchino ha scritto un libro per parlare di sé. E fin qui nulla da eccepire. Ma nella foga narrativa si occupa accidentalmente della mia trascurabile persona con eccessiva disinvoltura, incorrendo in qualche errore che devo correggere più nel suo interesse che mio. Bocchino sostiene che a minare le basi della maggioranza di centrodestra sono stato io. C’è del vero ma non c’è la verità. È un fatto che pubblicai sul Giornale, all’inizio di settembre 2009, un fondo in cui mi domandavo dove volesse arrivare il compagno Fini, perché criticasse il governo e in particolare Berlusconi (suscitando l’entusiastica approvazione della sinistra)? Un articolo duro al quale ne seguirono altri dello stesso tenore. Perché mi ero spinto a tanto? Avevo capito con largo anticipo che Gianfranco Fini non sopportava il premier, il suo modo di fare, il suo finto decisionismo (sia nell’esecutivo sia nel partito) che escludeva il presidente della Camera da ogni importante risoluzione politica, relegandolo a ruolo di un qualunque tesserato. In effetti i due cofondatori erano divisi da questioni strettamente personali, diciamo pure di antipatia, che a mio avviso avrebbero portato - e così fu - a un divorzio. Secondo Bocchino, la linea del Giornale non era frutto del mio pensiero autonomo, bensì indirizzata ad applicare i suggerimenti del Cavaliere. Il quale, se avessi disubbidito, mi avrebbe cacciato in tre minuti. E qui si vede che Italo non ragiona e non conosce Berlusconi che con me ha sempre conversato poco e malvolentieri. Al Giornale ero legato da un contratto di ferro, tutto poteva farmi paura tranne il licenziamento da cui avrei ricavato tre anni di stipendio in anticipo, senza contare la cosiddetta fissa, cioè una ricca indennità. Lasciando la direzione non solo non avrei smenato un euro, ma ne avrei guadagnati una barca. Ma questi sono dettagli. La realtà su come andarono i fatti è l’esatto opposto di quanto suppone Bocchino. Alcuni giorni dopo la pubblicazione dei pezzi critici su Fini, il Cavaliere mi telefonò e, col suo stile, mi pregò cortesemente di attenuare o, meglio, sospendere le critiche al presidente della Camera. Lo fece con garbo, appellandosi a superiori interessi del Paese che rischiava, perdendo Fini, di perdere la maggioranza e quindi il governo. Ascoltai in silenzio, non protestai, risposi che avrei valutato. Ma l’indomani continuai imperterrito per la mia strada senza sprecare una sola occasione onde tampinare il compagno cofondatore. Basta fare un salto in emeroteca per verificarlo. Berlusconi non solo non mi suggerì di dare addosso ad alcuno, tantomeno a Fini, ma mi supplicò di girare al largo da questi. Sono convinto che Bocchino sappia, pur non capacitandosene, come andarono le cose. Altrimenti non si spiegherebbe perché egli stesso, nel libro “Una storia di destra” ammetta di aver cercato e ottenuto un appuntamento con Sandro Sallusti per trattare un armistizio, confidando anche nell’intervento di Daniela Santanché, poi nominata sottosegretario. Anziché alla mia porta, perché Italo bussò a quella di Sallusti? Segno che sospettava che l’avrei mandato al diavolo, come faccio con tutti quelli che interferiscono nel mio lavoro. Praticamente mi ha aggirato nella speranza - vana - che da Sallusti e dalla Santanché potesse avere più soddisfazione che da me e da Berlusconi. Tutto ciò dimostra che l’unico responsabile degli articoli contro Fini è chi li ha firmati: io. Il resto è dietrologia, sono ipotesi fantasiose, sciocchezze che screditano chi le propala.