L'editoriale

Giulio Bucchi

L’Italia ha compiuto 150 anni, da oltre sessanta è una Repubblica democratica (anche se poco liberale), ma continua ad essere un Paese da operetta. Non è una battutaccia logora, bensì la conclusione di un ragionamento basato su dati di fatto. Si dà il caso che siamo entrati in guerra, ma lo sappiamo per sentito dire, se ne parla da qualche giorno in tivù, alla radio, sui giornali, nei bar e nelle case. Dappertutto tranne che in Parlamento, il luogo sacro delle decisioni più o meno irrevocabili. Praticamente, noi eleggiamo 630 deputati e 315 senatori affinché discutano ed eventualmente approvino o boccino qualsiasi provvedimento, dal più importante al più insignificante (con relativo spreco di tempo), ma se c’è la guerra nessuno li informa, eccetto i media, nessuno li convoca per dibatterne e votare. Perché questo assurdo vuoto istituzionale? Non ci crederete. La Camera è in altre faccende affaccendata. Ieri i signori onorevoli sono stati precettati per ascoltare l’orchestra diretta dal grande maestro Riccardo Muti, che ha suonato a Montecitorio (tempio della democrazia) il Nabucco col suo bel Va pensiero che piace a tutti, anche ai leghisti. L’assemblea è stata costretta a dare la priorità alla musica, rimandando il resto, tra cui il conflitto con la Libia il quale in fondo può attendere, visto che è già cominciato e infuria a prescindere dalla banale opinione dei parlamentari. Un rinvio di 24 ore non cambierà i destini della Patria, osserverà qualcuno. Vero. Peccato però che neanche oggi la guerra sia all’ordine del giorno per impossibilità materiale. Infatti, l’aula non è agibile in quanto ingombra dalle attrezzature utilizzate dai concertisti. Per renderla di nuovo disponibile serve un lungo lavoro che si protrarrà fino a sera. Domanda facile facile: invece di rinviare il voto sul nostro intervento militare, non sarebbe stato meglio rinviare il Nabucco? Non scherziamo. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ci teneva tanto alle note di Giuseppe Verdi e non sarebbe stato carino dargli una delusione. Sicché niente guerra, e fiato agli ottoni. Va pensiero sull’ali dorate... Tanto di Gheddafi si occupa Napoleone Sarkozy. Se questa non è un’operetta, converrete che è almeno un’opera pia a spese della collettività. I lettori avranno constatato con quanto pudore si evita di pronunciare il sostantivo guerra. Da quando non si celebrano più le imprese di “un milione di baionette”, è stato modificato anche il vocabolario e guai a chi non si attiene al linguaggio politicamente corretto. Domenica il presidente della Repubblica, intervistato da un cronista della tivù, è riuscito a commentare la partecipazione italiana al conflitto senza farsi sfuggire l’odiato termine. Ha fatto di più: ha fornito una descrizione così edulcorata degli avvenimenti bellici al punto che gli spettatori si saranno convinti si trattasse di gite fuori porta, scampagnate. Ha condito il suo discorsino con espressioni tranquillizzanti di questo tipo: l’Italia si limita ad applicare la risoluzione dell’Onu, si astiene dal combattere, aderisce alle scelte della comunità internazionale eccetera. Immagino il sollievo del popolo incollato al video. A guastare il clima di serenità creato dal pacato eloquio presidenziale, un collegamento con Trapani dove una giornalista annunciava, con toni concitati, che alcuni Tornado erano appena decollati e volavano sulla Libia. Ma allora siamo in gita o siamo in guerra? Che ci vanno a fare a Tripoli o a Bengasi i nostri aerei da combattimento, a dare un’occhiata al panorama, a lanciare volantini come all’epoca in cui D’Annunzio faceva l’eroe? Più tardi l’enigma è stato sciolto: la nostra aviazione si è mobilitata allo scopo di monitorare. Monitorare cosa? Questo ce lo diranno un’altra volta. Anzi, il ministro La Russa ha precisato: non ci sarà un’altra volta per la semplice ragione che d’ora in avanti le missioni saranno segrete, altrimenti i libici spengono i radar e addio monitoraggi; addio effetto sorpresa. Giusto. Ciò che conta nella presente congiuntura è non chiamare la guerra col suo nome perché è un tabù. La brutta parola è censurata anche dai giornali, eccetto Libero. Si vergognano a scriverla, temono di spaventare la gente che considerano cretina, impreparata a digerire la realtà. Non si può dire che c’è la guerra, ma la si può fare; si deve fare perché è figo.  Spara la Francia, spara l’Inghilterra, sparano gli Stati Uniti, volete che noi stiamo a guardare con le mani in mano? E così corriamo a spezzare le reni alla Libia, trascurando il particolare che da quelle parti c’è pieno di aziende italiane, Finmeccanica, Eni, Impregilo per citarne alcune. Non abbiamo certezze tranne una: se Gheddafi perde, Francia e Inghilterra metteranno le radici nel deserto al posto nostro col consenso dei nuovi padroni, e recupereranno il denaro investito in bombe facendo affari grazie alla ricostruzione; se Gheddafi vince, ci butterà fuori da casa sua al grido di traditori, e ce la farà pagare a suon di attentati terroristici. Comunque vada, noi non avremo più il petrolio, ma ci toccheranno milioni di clandestini. Contenti?