L'editoriale
La risposta dei giudici alla riforma della giustizia non è lo sciopero come qualcuno crede, ma l’accelerazione del processo Mills, decisa ieri a scapito di ogni altra udienza che riguardi il Cavaliere. Il procedimento è già morto per prescrizione ma la Procura di Milano sta provando a rianimarlo al solo scopo di appioppare a Berlusconi una bella condanna per corruzione di testimone. La quale - seppur non confermata dalla Cassazione perché fuori tempo massimo - rimarrebbe sulle spalle del premier a futura memoria, rendendolo indegno di ricoprire l’incarico attuale e di ambire ad altri, come per esempio quello sul Colle. Ciò dimostra che il riordino delle toghe non sarà indolore, ma peserà più di quanto si immagina. Prepariamoci dunque a una guerra senza alcuna esclusione di colpi, che ieri si è intravista anche nella decisione della Corte costituzionale di togliere l’immunità a Maurizio Gasparri per le frasi pronunciate sul giudice Woodcock. A memoria non era mai accaduto che per le proprie opinioni un senatore fosse spedito a processo, al punto che la sentenza appare quasi una vendetta della magistratura, una sorta di avvertimento al Parlamento affinché non s’azzardi più a criticare i pm. I quali evidentemente devono essere liberi di condizionare o di processare chiunque tenti di limitarne i privilegi e di punirne gli errori per far funzionare meglio i tribunali. Ragione per cui rinnovo l’appello rivolto due giorni fa a Massimo D’Alema, invitando lui e il suo partito a non praticare la politica degli struzzi. Il Pd sa benissimo che il riordino deciso dal governo non è né eversivo né punitivo come invece hanno sostenuto molti suoi esponenti. Prova ne sia che quindici anni fa la bicamerale presieduta dall’ex ministro degli Esteri ed ex segretario dei Ds varò una proposta analoga a quella di Berlusconi e a tenerla a battesimo fu un esponente dei Verdi, Marco Boato. Il quale ieri, intervistato da La Stampa ha raccontato un episodio rivelatore di quanta ipocrisia vi sia fra i progressisti quando affrontano il tema della giustizia. Al quotidiano di Torino l’ex senatore ha riferito che Pietro Folena, allora responsabile del settore per conto del Bottegone rosso, lo invitò a sostenere una modifica del Csm a scapito delle toghe, precisando che ufficialmente il partito lo avrebbe criticato. Un classico caso di doppiezza togliattiana: sottobanco d’accordo ma di fronte agli elettori sulle barricate. Se per cinismo politico il Pd non vuole favorire un’intesa, ascolti almeno la propria base e i propri uomini incappati in guai giudiziari e ingiustamente messi in carcere, avendone la vita e la carriera rovinate. Ieri mi sono arrivate due lettere, una dall’Aquila e l’altra da Napoli. La prima è del responsabile provinciale del Pd per i diritti e le garanzie: un signore finito in carcere negli anni Ottanta su disposizione del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro. Giulio Petrilli fu accusato di far parte di un gruppo terroristico e condannato in primo grado a 8 anni. L’assoluzione definitiva arrivò dopo sei anni in regime di isolamento. L’altra lettera è di Giuseppe Gambale, un ex parlamentare della Rete e dell’Ulivo oltre che assessore Pd del capoluogo campano. Nel 2009 è finito agli arresti domiciliari e vi è rimasto per mesi, accusato di associazione a delinquere e turbativa d’asta. Ironia della sorte, Gambale a Napoli era il delegato per la legalità e la lotta alla corruzione fu la bandiera della sua campagna elettorale. L’anno scorso lo hanno assolto perché il fatto non sussiste e per scaricare la rabbia di un’ingiusta detenzione ha scritto un libro. Nel volume non si lamenta né chiede provvedimenti contro i magistrati che lo hanno rinchiuso in casa. Riconosce solo gli errori di una carriera, la sua, costruita sul giustizialismo. Non è ora che gli stessi errori li ammettano anche i vertici della sinistra?