L'editoriale
Le statistiche sono come il vino: più ne bevi e meno capisci. Negli ultimi giorni, i quotidiani ci hanno bombardato di dati sulla occupazione delle donne (di cui si parla intensamente in prossimità e dopo l’8 marzo, una festa logora) e non riusciamo a riprenderci dallo stordimento. Il Corriere della Sera ha proposto una indagine di Eurostat dalla quale si evince che le nostre signore sono in coda alla classifica europea: come mettono al mondo un figlio, non sapendo a chi farlo accudire, trascurano il lavoro; se poi ne partoriscono un altro, il secondo, mollano tutto e se ne stanno a casa per disperazione. Sarà vero? Forse sì, forse no. I ricercatori sono bravi, ma non abbastanza per fotografare tutta la realtà. Difatti, la Stampa di Torino, martedì scorso, ha dato rilievo a una ricerca di Grant Thornton dalla quale si evince che, viceversa, l’Italia va meglio della media europea quanto a “quote rosa” ai vertici delle aziende. Nell’articolo, che spiega e commenta le cifre, si scopre che il 12 per cento di amministratori delegati è femminile. La percentuale dei senior manager donne è ancora più alta: 22 per cento, con un incremento dell’8 per cento. Non voglio tediare il lettore con una serie di numeri. Ne ho citati alcuni per dimostrare come spesso le informazioni legate a indagini demoscopiche siano quantomeno contraddittorie. Probabilmente perché vengono interpretate in modo poco corretto e usate a scopo di polemica politica. Anche a livello di Istat o addirittura di Ocse, le notizie su base statistica lasciano perplessi. Come noto, il Pil italiano è fra i più bassi della Ue: 1,3. E qui c’è poco da discutere, perché i parametri che consentono comparazioni sono uguali in tutto il continente. Ma c’è un ma. Sulla scorta di questo dato, assumono legittimità le preoccupazioni diffuse sul destino della Penisola, della quale si dice: la crescita è troppo bassa, quindi il debito pubblico è difficile da contenere, e il governo fatica a rilanciare l’economia eccetera. Osservazioni fondate fino a un certo punto. Peraltro non servono a comprendere cosa in effetti succeda dalle Alpi al Canale di Sicilia, né aiutano a raccapezzarsi chi intenda analizzare la questione dello sviluppo lento e asfittico. Occorre rilevare - e chiamo a testimoniare il ministro dell’economia Giulio Tremonti - che il Nord Italia, se preso a sé stante, registra il Pil più alto d’Europa (e di conseguenza tra i più alti del mondo). Non basta? Valutiamo il Centronord. Qui si segnala un Pil pressapoco uguale a quello della Germania, oltre 3 per cento. Cosa vuol dire? Nonostante la crisi, le regioni produttive italiane non hanno nulla da invidiare a quelle ritenute più avanti nella Comunità europea, ed è assurdo pretendere di spremerle ulteriormente: più di tanto non possono dare. Se il Pil nazionale è assai inferiore a quello del Centronord e del Nord, ciò è dovuto al fatto che la statistica tiene conto del sottosviluppo del Mezzogiorno. È il solito discorso dei polli. Se io ne ho due, e tu neanche uno, statisticamente ne abbiamo uno ciascuno anche se tu hai il pollaio vuoto. Va da sé che se l’Italia desidera viaggiare alla velocità della Germania (Inghilterra e Francia vanno piano quasi quanto noi) deve accendere i motori del Sud, perché altrove girano a mille. Il divario fra Settentrione e Meridione è enorme e richiede un esame. Il Sud è fermo, talvolta arretra precipitando verso il Terzo Mondo, mentre il Nord progredisce a ritmi elevati avvicinandosi ai Paesi più evoluti del Continente. Non è una novità che le Italie siano due, una forte e una debole. Ma quando si tratta di stilare statistiche, si mescolano numeri disomogenei dell’una e dell’altra fornendo una visione distorta della realtà complessiva. In sostanza, si tende a confondere la ricchezza con la miseria e questo impedisce di individuare quali siano le aree da scuotere e risollevare e quelle da rispettare perché fanno già la loro parte. Risollevare il Sud: lo sentiamo dire da almeno mezzo secolo. Ma allo scopo non è mai stato fatto nulla, eccetto distribuire soldi a pioggia (per fini elettorali) arraffati poi dalle mafie e dagli invalidi fasulli sotto forma di pensioni. Cosicché la spesa pubblica è aumentata, ma non ha agevolato il decollo del Mezzogiorno. Torniamo a bomba: le statistiche ingannevoli e manipolate. Sulla scorta di queste, ci si è convinti che le donne siano sottorappresentate nei posti che contano davvero. E il governo ha appena approvato una legge che prevede “quote rosa” nei consigli di amministrazione. Una follia. Intanto perché è falso che le signore non facciano carriera. In secondo luogo, fa sorridere che le scalate professionali siano regolate da norme che prescindono dalla selezione naturale. Le pari opportunità sono un principio consolidato. Il sessanta per cento delle persone laureate sono di sesso femminile. Le donne medico, magistrato e avvocato (per citare tre mestieri) sono più numerose dei maschi. Ovvio che tra vent’anni, quando le nuove leve saranno affermate, la parificazione sarà perfetta e le aziende pubbliche e private saranno guidate indifferentemente da Lui o da Lei. Volere che ciò accada subito con un provvedimento legislativo è una forzatura, una fuga in avanti. Solo all’idea di essere ancora qui a discutere se siano più adatti a compiti dirigenziali gli uomini o le donne, cercando di imporre per decreto chi debba salire o scendere, provoca tristezza. Perché l’uguaglianza fra i sessi è scontata. Se qualcuno pensa il contrario è da affidare al servizio sanitario obbligatorio, e non può sedere in Parlamento.