L'editoriale
Affittopoli nacque per caso. Nella assenza totale di notizie di un 16 agosto del 1995, sulla mia scrivania di vicedirettore del Giornale planarono inattese le poche righe di un collaboratore del presidente di Confedilizia. Leggendo la relazione che gli enti previdenziali presentavano annualmente al Parlamento, si era accorto che la gestione del patrimonio edilizio non rendeva niente. Anzi, alcuni istituti riuscivano misteriosamente a perderci. L’Inps, l’Inpdap e l’Inpdai avevano decine di migliaia di appartamenti, molti nelle piazze e nelle strade più belle d’Italia. Erano stati comprati con i contributi versati dai lavoratori per garantire a questi che una volta andati in pensione avrebbero ricevuto l’as - segno mensile loro dovuto. E invece di produrre utili, grazie agli affitti, quei palazzi li facevano perdere. Il collaboratore nel suo articolo non spiegava come ciò fosse possibile e a me venne la curiosità di saperne di più. Non ci fosse stato quell’appunto, una delle più straordinarie ruberie della classe politica ai danni della gente comune, che lavora e paga le tasse, probabilmente non sarebbe mai venuta a galla. Nessuno avrebbe mai saputo che gli onorevoli quando cercavano casa erano soliti alzare il telefono e chiamare i loro referenti negli enti previdenziali. Li avevano nominati loro nel consiglio di amministrazione e dunque dovevano obbedienza, pronti a eseguire al primo trillo. Così la casta saltava le lunghe liste di attesa cui era costretto chi voleva vedersi assegnato un alloggio. Altro che graduatorie, in qualche caso giacché non c’erano appartamenti adeguati e pronti all’uso si provvide a liberarli, sfrattando qualche anziano inquilino o costringendolo a traslocare altrove. La casa serviva all’onorevole. Non pago di uno stipendio da privilegiato, il deputato aveva trovato il modo di arrotondare, ottenendo un’abitazione a un prezzo fuori dal mercato perché gli enti, a differenza dei privati, erano costretti ad affittare a equo canone. Quando cominciarono a venir fuori i nomi dei fortunati affittuari, si scoprì che i più svelti a occupare le più belle residenze erano stati gli alti papaveri di Botteghe Oscure, uniti nella lotta ma pure negli agi. Dagli elenchi spuntò quasi tutta la nomenklatura comunista: da Nilde Iotti all’erede Cossutta, senza tralasciare D’Alema e Veltroni. Ognuno di loro si difese sostenendo la regolarità dell’assegnazione. Ovviamente i timbri sulle delibere c’erano tutti, ma l’irregolarità stava nell’appropriazione di un bene che avrebbe dovuto essere assegnato o a chi ne avevadavvero bisogno e non era nelle condizioni di pagarsi la pigione o a chi era in grado di versare un canone a prezzo di mercato. Quanto è stato scoperchiato in questi giorni a Milano mi ricorda esattamente quel che accadde l’estate di sedici anni fa. Oggi come allora gli inquilini sostengono di abitare in topaie di nessun valore, sperando così di giustificare la locazione a prezzi irrisori. Oggi come allora i dirigenti fanno resistenza a sollevare il velo su un sistema di privilegi e clientele. Dall’elenco pubblicato ieri da Libero una manina avrebbe infatti espunto 150 appartamenti, evitando dunque di segnalare a chi siano finiti, se affittati o venduti. Sia chiaro: noi quei nomi li vogliamo. Ma nonostante tutti i tentativi di nascondere i fatti, per quel che ci riguarda andremo avanti, chiedendo che sia fatta piena luce sulla gestione degli oltre mille immobili della Baggina. Il Trivulzio è un ente benefico che ha il compito di assistere e curare gli anziani e il suo patrimonio è frutto di lasciti che devono servire a far star meglio chi, arrivato alla tarda età, è malato o non più autosufficiente. Se qualcuno se n’è approfittato è giusto che sia svergognato e paghi il prezzo della mascalzonata. Rubare ai vecchietti è come rubare ai bambini.