L'editoriale
Ci hanno messo trent’anni, ma alla fine anche i più fedeli sostenitori stanno cominciando a capire che Gianfranco Fini è solo un paio d’occhiali sul nulla. Il copyright non è mio ma di Stenio Solinas, uno che lo conosce bene avendo militato con lui nei giovani missini. Quando lo scrisse sul Giornale che allora dirigevo successe il finimondo: il boss di An all’epoca era ancora accucciato ai piedi di Berlusconi e dunque le reazioni del centrodestra a difesa del futuro presidente della Camera furono compatte. Un ministro mi inviò una vibrata lettera, mentre Fini si rivolse direttamente al Cavaliere, minacciando ritorsioni. Grazie a questo tipo di protezione, negli anni in cui ha guidato Alleanza nazionale è stato esente da critiche: quasi nessuno si è permesso di fargli le pulci, ricordandogli errori e voltafaccia, che ci sono stati e pure in gran numero. Luca Negri tempo fa li ha messi in fila in un libro dal titolo Doppifini, disegnando il ritratto di un uomo senza ideali ma molte ambizioni, il quale pur di assecondare le ultime ha preso a prestito i primi, dismettendoli come vestiti vecchi appena ha ritenuto di non averne più bisogno. Non sto qui a ricordare di quando ce l’aveva con gli immigrati che «corrodevano la nazione» mentre ora vuol dare la cittadinanza agli extracomunitari. Né del giorno in cui enunciò la contrarietà ai maestri gay per poi dire sì ai diritti delle coppie omosessuali. Le giravolte sono note e in qualche caso recenti. Ciò che mi preme è semmai spiegare come un uomo del genere sia stato tanto fortunato da compiere una carriera travolgente, che lo ha portato a diventare la terza carica dello Stato, per poi giocarsi tutto in pochi mesi, dilapidando un patrimonio ideale prima che elettorale, fino al disastro di questi giorni, con il fuggi fuggi di chi l’aveva seguito in Futuro e Libertà. Per capire bisogna partire proprio dalla dea bendata che lo ha assistito per quasi quarant’anni, consentendogli di incontrare gli uomini che lo hanno condotto al successo. Il primo fu Giorgio Almirante, il quale gli regalò il partito, nominandolo segretario ad appena 35 anni. Il secondo fu Pino Rauti, che glielo riprese quasi subito appena morì lo storico capo del Msi, ma fu incapace di tenerlo. Poi, quando sotto la sua guida il Movimento sociale si ridusse al lumicino, ecco arrivare Berlusconi e la crisi della Prima Repubblica, che rinfocolò la fiamma al 13,5 per cento, più del doppio di quel che aveva prima. Probabilmente, non fosse arrivato Tatarella, che lo convinse a liquidare il partito dei reduci per fondare una destra moderna, Fini in breve sarebbe tornato dov’era . Morto Tatarella, appena il leader di An volle far di testa propria unendosi a Mario Segni, rischiò di finire sotto il 10 per cento, mentre nel 2008 sarebbe potuta andare anche peggio se Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri non lo avessero convinto a entrare nel PdL: il presidente della Camera col sette per cento non avrebbe avuto neanche un senatore e la carriera anziché svoltare per Montecitorio sarebbe giunta al capolinea . La sua fortuna è stata dunque quella di avere sempre avuto intorno qualcuno che gli impedisse di sbagliare. Purtroppo per lui da due anni il posto di Tatarella è stato preso dal portaborse di Tatarella, Italo Bocchino, un giovane che pur di far carriera si è messo al suo servizio suggerendogli gli errori. Bocchino invece di frenare le manie di grandezza di Fini - il quale sogna d’essere il De Gaulle italiano - le ha assecondate senza tentennamenti, mettendoci di suo una buona dose di ambizione e arroganza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: degli oltre ottanta parlamentari che An fece eleggere nel PdL, al presidente della Camera ne rimangono sì e no una trentina e di quel 12 per cento di voti raggiunto ai tempi d’oro ora al massimo ne rimane un quarto. Di fronte a un tale sfacelo, Gianfranco dà la colpa a Berlusconi, accusandolo di non essere stato fermo mentre lui cercava di pugnalarlo. «È il potere finanziario del premier» ha detto, dimenticando che tra i fuggiaschi di Futuro e Libertà c’è anche il senatore Franco Pontone, un galantuomo che ha accettato di fare la figura del fesso pur di parargli le spalle nell’affare di Montecarlo. La verità è che prima di ingannare se stesso, Fini ha ingannato coloro i quali in lui avevano creduto, promettendo l’approdo a una destra moderna e invece preparando lo sbarco in una vecchia sinistra. E quando i truffati hanno protestato, il presidente della Camera invece di fare un passo indietro ha tentato il colpo di mano, imponendo il suo tirapiedi ai vertici del partito. Ma uno che ha rinnegato il Duce e poi si mette a fare il ducetto non può che finire male. E così è stato. Non so se Futuro e libertà sparirà, ma se non è morto è moribondo e con Fli anche i sogni di gloria. Per Fini un risveglio amaro. Anzi, un Bocchino amaro.