L'editoriale
A differenza del suo predecessore, il quale si divertiva un mondo a fare il nonno della Repubblica e a mettere il becco su qualsiasi cosa, Giorgio Napolitano all’inizio del mandato ha mantenuto uno stile asciutto, intervenendo il meno possibile e senza mai esondare dalle funzioni che gli assegna la Costituzione, soprattutto evitando quelle prediche inutili per cui Ciampi e Scalfaro vengono ricordati. L’atteggiamento iniziale del capo dello Stato forse era dettato dall’esigenza di farsi perdonare un passato di cui non andar fieri, e che Antonio Socci qualche tempo fa su queste stesse pagine ha ricordato nei suoi passaggi fondamentali, a cominciare dalla difesa dell’invasione sovietica dell’Ungheria, la cui rivolta fu spenta col sangue di migliaia di ungheresi. Non so se poi a un certo Giorgio Napolitano abbia giudicato di aver fatto abbastanza penitenza o più semplicemente abbia preso la mano con il nuovo incarico, divenendo disinvolto e meno attento alla forma. Sta di fatto che ultimamente il presidente ha abbandonato la misura sobria e contenuta della prima ora e non passa giorno che non abbia qualcosa da dire e lo dica con tono sostenuto. Le più recenti esternazioni sono quelle che riguardano i tagli, materia certo non di sua competenza e dalla quale lui, che non ha mai amministrato neanche un condominio, dovrebbe tenersi rigorosamente alla larga. La politica economica è infatti di esclusiva prerogativa del governo e al Quirinale semmai toccherebbe di verificare la copertura delle leggi di spesa, così da evitare sforamenti di bilancio e la crescita del debito pubblico. Nonostante non sia affare suo, il presidente la scorsa settimana ci ha tenuto a far sapere che la riduzione degli sprechi va fatta con la testa e non a casaccio, come se Tremonti si divertisse a sforbiciare ciò che gli capita a tiro solo per il gusto di tagliare. Non contento, ieri è ritornato sulla questione: invece di difendere l’assistenza alle persone che non arrivano a fine mese, che pure ci sono, Napolitano ha spiegato che si devono conservare gli aiuti allo spettacolo e al cinema. Ovviamente la lezione di economia non l’ha impartita ai bocconiani, ma a attori e registi sul piede di guerra perché costretti a rinunciare alle centinaia di milioni che da sempre lo Stato elargisce a pioggia a molti di loro. Che questi soldi servano a finanziare enti inutili o film che nessuno vede perché anche il distributore si vergogna a promuoverli, come ha dimostrato un’inchiesta di Libero, al capo dello Stato importa poco. A lui interessa conservare alto il proprio consenso, regalando parole che fanno contenti tutti. In fondo, non avendo la responsabilità delle decisioni e nemmeno di tenere insieme i conti pubblici, un bel discorso costa poco. Se c’erano dubbi sulla necessità di rivedere il ruolo del presidente della Repubblica, immaginando un’eleggibilità diretta che lo sottoponga a un giudizio degli elettori, l’abuso fatto dal capo dello Stato li ha fugati. Il Quirinale non è una specie di contropotere al governo né una sorta di Cassazione cui rivolgersi quando non si è soddisfatti delle decisioni dell’esecutivo. Secondo i padri costituenti il presidente serviva a garantire un equilibrio di poteri, non a diventare esso stesso un potere. Evidentemente una volta saliti al Colle, l’equilibrio si fa fatica a conservarlo. E questa, comunque vadano le vicende di Berlusconi, è questione da ricordare la volta che si riproporrà il tema delle riforme.