Editoriale
Scusate se scrivo di fretta, ma ho passato mezzo pomeriggio a raccontare a una delegazione dell’International press institute come funzionano le cose nelle redazioni italiane. L’Ipi è un’associazione mondiale che si occupa di libertà di stampa e da qualche giorno un gruppetto di suoi rappresentanti si aggira in Italia per capire se da noi esiste ancora il diritto di informare senza censure. A Mr Mills e ai suoi colleghi ho provato a spiegare gli intrecci azionari e gli interessi che si nascondono dietro le principali testate, illustrando i rapporti che legano magistratura e giornali e descrivendo la trasformazione in strumenti di lotta politica subita dai media negli ultimi vent’anni. Non so se ci sono riuscito e cosa abbiano capito Mr Mills, Mr K. C. Li e i suoi amici. Ogni tanto i loro occhi si dilatavano per lo sbigottimento (...) (...) e avevo la sensazione che pensassero di avere davanti un extraterrestre. Del resto, come si fa a credere che una televisione del servizio pubblico possa essere usata privatamente da alcune persone, le quali fanno e dicono ciò che vogliono, spernacchiando ogni giorno il direttore generale di quella tv? Come si può immaginare che in televisione ci sia un gruppetto di furbi che ha compreso qual è il trucco per far carriera, godendo del rispetto e del denaro dei contribuenti, e allo stesso tempo esista un gruppetto di fessi che ogni settimana prova inutilmente a fermarli regalando ai furbi anche un po’ di pubblicità? Come si fa, dico, a supporre che in un Paese normale possa esistere la Rai? Mentre parlavo, vedevo Mr. Mills e Mr. K.C. Li che mi guardavano sempre più increduli. Probabilmente si chiedevano se io fossi davvero un giornalista o non piuttosto uno scrittore di fantasy. In effetti, se uno mettesse in fila le vicende accadute negli ultimi anni nei corridoi di viale Mazzini o di Saxa Rubra, materia per farci un romanzo ci sarebbe. Raramente infatti si ha l’occasione di incontrare una così ampia categoria di marpioni che bada solo ai fatti e agli interessi propri, senza curarsi minimamente di quelli dell’azienda o del pubblico che paga il canone. E allo stesso tempo raramente si può toccare con mano la vocazione suicida di certi dirigenti, i quali si lanciano in battaglie perse con l’assoluta certezza che verranno fatti a pezzi. Prendete Mauro Masi. Fino a qualche anno fa era considerato una specie di Gianni Letta minore, ma con una carriera altrettanto ben messa. Un passato da dirigente della Banca d’Italia e da funzionario di Palazzo Chigi, apprezzato da destra e da sinistra, con trascorsi al servizio del governo Berlusconi ma anche di D’Alema, del quale è stato capo di gabinetto. Invece, appena entrato in Rai, è diventato lo zimbello di tutti. Santoro lo ha mandato affan... bicchiere e un oscuro funzionario, che sovrintende agli spettacoli di Fazio e Saviano, lo ha sputacchiato. Masi ha provato a far rispettare le regole di una televisione pubblica, ma più lui insiste a mettere paletti e più loro glieli danno sulla testa, facendo le vittime. Risultato? Un programma che fa sbadigliare come “Vieni via con me” lunedì ha raggiunto il record di ascolti. E lo stesso capiterà la volta prossima, dopo che Masi ha provato a dire che Bersani e Fini in uno speciale che doveva parlare di poesia c’entrano come i cavoli a merenda. Io mi domando: ma chi glielo fa fare a Masi di insistere, sapendo che non lo ascoltano, ma anzi lo usano per tirar su l’audience con la scusa della censura? Se non ci fossero state le polemiche, i giornali avrebbero ignorato lo spettacolo o forse avrebbero scritto ciò che per carità hanno solo lasciato tra le righe, ossia che Fazio e Saviano sono una pizza, e di quelle indigeribili. Perché il direttore generale, che fesso non è, si presta al gioco? Fossi in lui, io lascerei perdere. E lo stesso farei se fossi in Mr Mills e Mr K. C. Li. Capire ciò che accade nelle redazioni e in tv è un’impresa disperata. Lasciate perdere, cari colleghi, non ne vale la pena. Soprattutto non vale la pena correre dietro a tutte le balle che raccontano i finti martiri. Godetevi l’Italia. O almeno ciò che ne resta.