L'Editoriale
Tutto come previsto: dopo un’indagine molto particolare, la Procura di Roma ha chiesto di archiviare la vicenda della casa di Montecarlo. L’ultima parola non è ancora detta, perché la decisione finale spetta al giudice delle indagini preliminari, ma diciamo che la pratica è ben impostata affinché dalle aule del Palazzo di giustizia passi direttamente nel sottoscala e lì rimanga per sempre, senza che nessuno dei misteri sull’operazione monegasca sia stato chiarito. Del resto, che questo fosse il prevedibile esito del lavoro della magistratura, lo avevamo anticipato fin dal principio, con un titolo abbastanza esplicito (“La Morte dell’inchiesta”), avvertendo i lettori di non aspettarsi alcun colpo di scena né alcuna spiegazione da parte dei pm, ma piuttosto di prepararsi alla chiusura della vicenda. La precauzione non ci era stata dettata da capacità soprannaturali, ma solo da quel po’ di esperienza accumulata in questi anni. Se c’è di mezzo Berlusconi o qualcuno a lui prossimo, s’indaga fino allo sfinimento e il segreto istruttorio dura lo spazio di un istante. Se invece ci sono di mezzo le intercettazioni telefoniche di D’Alema, queste sono custodite meglio del terzo segreto di Fatima e se vengono svelate s’indaga per anni sui cronisti che le hanno pubblicate, e anche sui loro parenti fino al terzo grado. Essendo Fini ormai assimilato a una figura dell’opposizione, diciamo che ha goduto del trattamento riservato all’esponente piddino e dunque della massima riservatezza e di tutte le garanzie del caso. Ovviamente, adesso diranno che vogliamo diffamare i procuratori che si sono occupati della questione, ma noi non alludiamo a loro, semplicemente al sistema informativo e investigativo nel suo insieme. Oltre alla conoscenza di come vanno le cose, a farci ritenere che tutto sarebbe finito in una bolla di sapone giudiziario era stato anche il sorriso beffardo del presidente della Camera, il quale in tv, da Mentana, s’era presentato come un gatto col sorcio in bocca, mostrando di esser certo di poter tappare la bocca a tutti, e in particolare a Libero e al Giornale, con una bella archiviazione. Detto tutto ciò, Fini ha poco da cantar vittoria, perché chiudendosi quasi certamente la questione penale, se ne apre una morale. Nella richiesta al gip, la Procura scrive che se a vendere fosse stata una società vi sarebbe stata l’infedeltà patrimoniale, punibile con una pena da un minimo di 6 mesi a un massimo di 3 anni. Ma non essendo An un’azienda, bensì un’associazione, il reato non esiste. Vero, ma esiste la responsabilità politica. Regalare a un terzo del valore un bene di proprietà del partito a una persona sconosciuta o meglio, come ha dimostrato il documento del governo di Saint Lucia, molto conosciuta, non è un’operazione di cui farsi vanto. Soprattutto se si è la terza carica dello Stato e si ambisce a diventare la prima.