L'Editoriale

carlotta mariani

Ci fu un tempo in cui il soprannome di Michele Santoro era “Gigi er bullo”. A chiamarlo così, per primo, fu Beniamino Placido, il critico tv di Repubblica, al quale nelle sue prime apparizioni in video il conduttore di “Annozero” ricordava un personaggio del folklore romano, che minacciava tutti e non spaventava nessuno. Altri tempi. Santoro era all’inizio della carriera e per farsi notare era costretto a mostrare le immagini di una bimba nata con due teste o di fratelli strappati dai giudici ai genitori adottivi. Non essendo impegnato nella battaglia politica, non aveva l’aura di intoccabilità di cui gode oggi e gli schizzinosi del giornale diretto da Eugenio Scalfari non gli lesinavano legnate, giudicandolo per quel che è. L’altra sera, però, “Gigi er bullo” è tornato. È stato quando le cose sono iniziate a girargli male e una trasmissione che doveva mostrare il martirio di una reliquia della lotta alla criminalità a opera degli sgherri berlusconiani si è impelagata in una storia di contratti, soldi, scalette presunte e così via. Di fronte alla scheda programma - ovvero alla documentazione interna Rai - contenente i costi e la descrizione degli argomenti delle puntate della nuova trasmissione di Fazio, Gigi Santoro ha cominciato a ironizzare sui segugi di Libero che avevano scovato quelle carte. Altro che diffamazione, a proposito dei compensi a Benigni e Saviano. Altro che censura sul taglio delle puntate. L’inoppugnabilità delle carte riconduceva la vicenda del presunto bavaglio all’autore di Gomorra a ciò che è, ovvero una questione di denaro e di diritti tv, trasformata in questione politica solo per poter attirare su di sé un po’ di promozione preventiva e fiaccare la resistenza della direzione Rai. Anziché compiacersi che una notizia venisse data durante la sua trasmissione, come farebbe qualsiasi giornalista interessato ai fatti e non alla piega politica che questi prendono, Giggi er bullo ha provato a ridicolizzare il piccolo scoop, cercando di dare a intendere agli ascoltatori che chissà per quali vie ci fosse arrivato il documento. Niente di sorprendente, intendiamoci. Sono anni che Santoro gioca con questi espedienti, orientando le puntate in base alla sua fede politica. Sono gli stessi che usa quando vede Travaglio o altri compagni suoi soccombere nel dibattito. Giochetti che lo portano a sovrapporsi all’interlocutore proprio quando questi sta dicendo qualcosa di fondamentale, oppure quando, avendo di fronte un ospite preparato che gli oppone cifre e numeri, liquida i dati dicendo che non interessa a nessuno addentrarsi troppo nei dettagli. Trucchi di un attore consumato, che è sulla scena da oltre vent’anni e ha imparato tutto quello che c’era da imparare. Soprattutto, sa come far salire l’audience.  Dai tempi in cui nessuno se lo filava, e quando qualcuno lo filava lo giudicava come Placido, ne è passata di acqua sotto i ponti.  Ha capito che più la spari grossa, più lasci le briglie sciolte a tipi come Travaglio, più fai rumore e più la gente ti guarda: magari mangiandosi il fegato, ma ti guarda. L’apprendistato lo fece con Leoluca Orlando, ai tempi della Rete, lasciandogli dire prima che Falcone insabbiava le prove contro insospettabili uomini politici, poi che il maresciallo Antonino Lombardo era contiguo alla mafia, accuse che provocarono il suicidio del sottufficiale di Terrasini. Nel tritacarne di “Samarcanda” finirono anche Calogero Mannino, che, con un’intervista del pentito Spatola, fu chiamato in causa per voto di scambio e appalti, e l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, che dagli studi della Rai fu invitato alle dimissioni. Poi ci fu la famosa puntata del 12 marzo del 1992, quando, a cadavere ancora caldo, Santoro rilanciò la domanda di Antonello Venditti alla folla riunita a Palermo: «Venditti chiede alle persone che sono lì a Palermo se sono contente che Lima è morto». Fino ad allora Gigi er bullo non piaceva a nessuno, né agli intellettuali né ai colleghi. Lo ritenevano rozzo e fazioso. Norberto Bobbio scrisse contro di lui un articolo fortemente critico sulla Stampa, Enzo Biagi non gli lesinò punzecchiature e Gad Lerner gli diede del leader politico più che del giornalista. Ma, agonizzante la Prima Repubblica e non ancora nata la Seconda, qualcuno pensò che anche Santoro poteva tornare utile per dare il colpo di grazia a un sistema che non si decideva a tirare le cuoia. Una Dc tremolante e incerta contro Gigi provò a minacciare provvedimenti di sospensione e censure, ma senza mai davvero affondare il colpo. Con il risultato che lui prese a fare ancora di più il bullo, proteggendosi le spalle con gli ascolti. In fondo lui è un precursore dei reality. Accuse e processi in diretta. Chic, ma pur sempre reality. Come per il “Grande Fratello”, ha bisogno per alzare lo share di esagerare sempre di più. E soprattutto ha bisogno di un nemico contro cui scagliarsi. Se non c’è l’animale da cacciare, non ci sono neanche gli ascoltatori da attirare. Per lui dunque Berlusconi è perfetto, perché è una preda difficile da atterrare. Una sfida che si ripete ogni giovedì e che spinge Gigi a superarsi, specie dopo che un giudice lo ha fatto diventare un intoccabile, permettendogli di cantare  “Bella ciao” o di mandare affan... bicchiere chi cerca di ricondurlo negli argini del servizio pubblico. Con uno così c’è poco da fare: o gli si chiude la rete o gliela si vende. Oppure  bisogna attendere qualche anno. Non il tempo che lui vada in pensione, ma quello necessario a che vinca la sinistra. Che si chiami Renzi o Saviano (è lui, come abbiamo scritto, l’ultima speranza di un’opposizione che non c’è), ci penserà il futuro leader progressista a liquidarlo. Proprio come fece anni fa D’Alema. La guerra tra Spezzaferro e Gigi er bullo finì male per quest’ultimo, che dovette emigrare a Mediaset. Ecco, forse, per liberarsi da Santoro ci toccherà aspettare il nuovo Baffino.