L'editoriale

Tatiana Necchi

Se c’era bisogno di un certificato di morte presunta per avere certezza dello stato di salute dell’Unione europea, eccolo arrivato. Lo scontro tra Nicolas Sarkozy e José Barroso, l’ex primo ministro portoghese che da sei anni guida la Ue senza che nessuno se ne sia accorto, è la dimostrazione più evidente che l’euro è stato fatto, ma l’Europa resta ancora da fare e non è detto che mai si riesca. La Commissione presieduta da Barroso non è infatti il governo del continente e non è neppure l’organo di coordinamento di una serie di Stati federati. Semplicemente è una cosa mal riuscita, un ibrido, una sovrastruttura che tutti i capi dei Paesi membri fingono di  considerare e invece disprezzano, mandandoci spesso politici trombati o in disarmo, come accadde anni fa con Romano Prodi, che fu sistemato a Bruxelles perché i suoi compagni vollero levarselo di torno per evitarne la vendetta dopo averlo fatto cadere. I membri della Commissione europea sono in larga parte sconosciuti, così come è semi sconosciuta la loro attività. In genere se ne sa qualcosa quando intervengono su temi di largo impatto e in tal caso il loro nome emerge dall’anonimato in cui solitamente sono confinati. È  successo con Viviane Reding, un’ex giornalista lussemburghese prestata alla politica che da una vita bazzica il Parlamento europeo. Di lei si sa che è stata  “ministro”  di Prodi quando questi guidava la Commissione. All’epoca si occupava di giovani e sport, poi è passata all’informazione e ai media  dedicandosi al progetto della biblioteca digitale europea. Da quest’anno invece le sono stati affidati la giustizia e i diritti fondamentali. È  dall’alto di questo incarico che ieri l’altro ha fatto sentire la sua voce, bacchettando la Francia per la questione dei Rom nei confronti dei quali il presidente francese ha deciso la linea dura. Ora, in linea di principio, siamo d’accordo: le persone non dovrebbero essere espulse in base alla loro provenienza o etnia, ma semplicemente in funzione di ciò che hanno commesso. I diritti però poi si scontrano con la realtà. E la realtà è fatta di reati, di microcriminalità sfuggente e di problemi di ordine pubblico. Quattrocento mila persone, spesso accampate in insediamenti non autorizzati, non si gestiscono facilmente, soprattutto se sono senza fissa dimora, non hanno documenti o ne hanno troppi e non si assoggettano alle leggi del Paese che li ospita. Uno Stato è tale se ha delle regole e le fa rispettare. Se uno è fuori da quello Stato, non lo riconosce e non si adegua alle norme, è bene che stia lontano anche dai suoi confini geografici. L’immigrazione e i problemi che ne derivano non si gestiscono solo con dichiarazioni di principio, ma con un po’ di senso pratico, proprio quello che manca in certi uffici di Bruxelles e Strasburgo, troppo presi a occuparsi di curvature delle banane per dare uno sguardo alle curve delle ondate migratorie clandestine e a quelle dei delitti commessi da immigrati. Forse Sarkozy non sarà stato un maestro di eleganza nel dire che la Reding se vuole i Rom li può ospitare a casa sua, in Lussemburgo. Di certo è stato un maestro di realismo politico, incontrando il favore dei francesi. Un realismo che manca a chi affida un delicato compito come quello della giustizia e dell’immigrazione a persone che nel loro Paese al massimo si confrontano con le infrazioni stradali, non con le invasioni internazionali. La questione più importante che il vecchio continente si trova a dover gestire non la si può lasciare a chi quella questione non la prova nelle proprie città e sulla propria pelle. Altrimenti, presto toccherà aggiornare la lapidaria definizione che dell’Europa fornì Antonio Martino ai tempi delle guerre balcaniche: un gigante economico, un nano diplomatico e un verme militare. Ora si potrebbe aggiungere: un elefante paralizzato.