L'editoriale

Tatiana Necchi

Niente di nuovo sotto il sole di Mirabello. Gianfranco Fini ha detto esattamente ciò che avevamo previsto dicesse, ovvero un sacco di balle. Anziché parlare chiaro e tondo, spiegando che lui da anni sognava di prendere il posto di Berlusconi e non ha mai creduto nel Popolo delle Libertà, ma è stato costretto a entrarvi per evitare un fallimento elettorale che avrebbe segnato la fine della sua carriera politica, il presidente della Camera ha cercato di darsi un contegno da statista, aggiustando la storia di questi ultimi anni, riscrivendola di sana pianta e talvolta nascondendola là dove gli conveniva.  Prima ha provato a recuperare l’identità missina, esibendo il volto scavato di Mirko Tremaglia, l’unica icona autenticamente fascista rimastagli accanto, poi, per invocare il diritto al dissenso, si è riempito la bocca di parole che non gli appartengono, come “democrazia” e “liberale”, giustificando il fuoco amico con cui dal 2008 colpisce quasi quotidianamente il Cavaliere.  Ma se c’è un capo che ha ripudiato la storia del Msi, cancellando dai suoi discorsi tutto ciò che era di destra, che ha guidato per quasi vent’anni il partito con il pugno di ferro, spegnendo sul nascere ogni dissenso e eliminando senza riguardi chiunque gli si opponesse, beh questo è Fini. Il suo discorso dunque è suonato falso come una moneta di ottone che si vuole spacciare per oro. Ha attaccato Berlusconi su tutto dimenticando che negli ultimi sedici anni ha condiviso con lui tutto.  Il massimo lo ha raggiunto quando ha sfiorato la questione della casa di Montecarlo e gli annessi affari di cui abbiamo dato conto in queste settimane. Scandendo le parole in modo irato e accusando chi come noi gli chiede conto dei suoi oscuri traffici d’essere infami, il presidente della Camera si è comportato esattamente come Oscar Luigi Scalfaro con il suo non ci sto. Nessuna spiegazione, neanche una delucidazione che contribuisse a fare chiarezza, ma solo un generico riferimento alla magistratura, ossia a quelle stesse toghe che spera lo salvino così come vent’anni fa salvarono il presidente della Repubblica. Il picco di maggior ipocrisia però Fini lo ha raggiunto quando, subito dopo aver glissato sul quartierino monegasco, ha avuto l’impudenza di citare i furbetti del quartierino, proponendo un codice etico per chi ricopre incarichi politici. Quando al resto, il presidente della Camera ha fatto un discorso alla Veltroni, mettendoci un po’ di chiacchiere sui giovani, sul futuro delle piccole imprese e sulla scuola. Riferimenti vuoti senza alcuna proposta vera. Parole in libertà che però spera di usare come specchietti per le allodole, così da acchiappare un po’ di voti a sinistra tra i seguaci di Di Pietro che hanno in odio il Cavaliere e si riempiono la testa con frasi come quelle sentite a Mirabello. Le uniche cose degne di nota sono quelle che riguardano il PdL e il futuro del governo, le sole su cui la terza carica dello stato ha qualche possibilità vera di incidere. In pratica Fini ha dichiarato di voler seppellire il Popolo delle Libertà, provando a sostituirlo con il suo Futuro e Libertà, che non a caso, anche nel nome, scimmiotta il primo. Che non amasse il PdL e ne desiderasse una rapida fine, non è in assoluto una novità e neppure che avesse ambizioni di soffiare al Cavaliere il partito: è dai tempi dell’Elefantino che prova a scalzare colui che ritiene l’unico vero ostacolo alla sua ascesa nell’olimpo degli statisti. Però stavolta Gianfranco si è deciso a varcare il Rubicone, abbandonando ogni cautela per rimettersi in proprio e con la dichiarata intenzione di far concorrenza a Berlusconi. Che poi per lui la scelta sia stata obbligata, praticamente questione di vita o di morte, è secondario. Altro fatto di un certo rilievo è che il presidente della Camera ha offerto a quello del consiglio un nuovo patto di legislatura. In cui non ci sono le questioni Nord - Sud, le misure economiche per le famiglie e i giovani: quella è fuffa buona per palati grossolani. Ingredienti che servono a nascondere quelli veri, con cui il presidente della Camera si prepara a insaporire il piattino che conta di rifilare al Cavaliere. Il patto reale è quello che si basa sull’offerta di una legge costituzionale che protegga il premier dall’aggressione giudiziaria. Fini ha detto che è pronto a votare un simile provvedimento, ma in cambio vuole una legge elettorale che nella prossima legislatura garantisca la sopravvivenza a lui e al suo partito e, soprattutto, impedisca a Berlusconi di tornare a vincere. Ecco la sostanza. La terza carica dello stato, al riparo del suo ruolo, vuole poter continuare a logorare il governo per i prossimi due anni e insieme la certezza di tornare a Montecitorio nel 2015 con la sua pattuglia. In cambio offre un salvacondotto giudiziario al suo avversario. A guardarla, depurata da tutte le parole di circostanza e dal fumo diversivo che l’avvolge, si tratta di una manovra di piccolo cabotaggio, che certamente allunga la vita politica del presidente della Camera, ma non lo fa approdare molto lontano. Infatti, quando tutto sarà concluso  e dando per buoni i sondaggi ottimistici pubblicati da giornali che tifano per lui, alla fine Gianfranco Fini si troverà alla guida di un partito con il sei per cento, la metà esatta di quel che aveva la vecchia Alleanza nazionale. Naturalmente, ammesso e non concesso, che gli italiani si accontentino di quel «non ci sto», anzi, di quell’«infami» pronunciato quasi a  reti unificate. Buona fortuna dunque, Oscar Luigi Fini.