L'editoriale

Tatiana Necchi

Giorgio Napolitano ha detto ai giudici che non devono farsi condizionare da «logiche diverse», perché ne va della credibilità della stessa magistratura. Le allusioni alla P3, ai rapporti con la politica e a pratiche spartitorie che da tempo vigono fra le toghe sono evidenti e in linea teorica non si può non convenire con il discorso del capo dello Stato. Il problema è che il luogo in cui è intervenuto il presidente della Repubblica, ovvero il Csm che Napolitano presiede, è l’emblema stesso di ciò che viene criticato. Anche i sassi sono infatti a conoscenza del fatto che le nomine del parlamentino dei giudici, quel Consiglio superiore che ha potere di scelta e di censura, sottostanno a logiche di corrente e non certo di merito. I giudici che vi fanno parte vengono indicati in base a una rigida spartizione fra le diverse componenti dell’Anm e, una volta eletti, rispondono al loro gruppo di riferimento e quindi nominati nei vari uffici da chi fa parte del movimento che li ha espressi. E se c’è da punire qualcuno, sono rigidi o tolleranti a seconda della tessera che il candidato alla sanzione ha in tasca. Il Csm è insomma proprio il luogo dove si istituzionalizza che anche un giudice ha un cuore e batte per qualcuno, che si chiami destra, sinistra o lobby. Altro che super partes. Può sembrare un insulto, ma non lo è. E a testimonianza di quel che dico ci sono gli oltre 300 ricorsi per nomine lottizzate che sono state fatte nel corso degli anni proprio dal Csm. Trecento designazioni di altrettanti magistrati sarebbero in pratica illegali, fatte scavalcando qualcuno che aveva più titoli del prescelto. Ma, pur non essendo legittime, le correnti le hanno imposte per fare un piacere a un loro iscritto. È ovvio che poi a cascata i nominati, proprio perché abusivi, siano riconoscenti nei confronti di chi li ha designati, collega o lobby che sia. È qui che si innescano i vari Lombardi e la loro compagnia di tre pirla, i quali si danno da fare per perorare la causa di qualche amico approfittando del debito di riconoscenza che possono vantare, loro o i loro referenti. Se dunque davvero Napolitano ha a cuore l’indipendenza della magistratura ed esige la condanna di ogni consorteria, per prima cosa dovrebbe darsi da fare proprio per smantellare il Csm, o almeno il Consiglio della magistratura così composto. L’idea che i magistrati possano essere i migliori giudici di se stessi è chiaramente fallita, perché non si può chiedere a nessun agnello se è giusto sacrificare l’altro agnello per il pranzo di Natale. Ciascuno sa infatti che oggi tocca a un altro, ma domani può toccare a lui: dunque i magistrati si aggiustano, anzi si tengono fra loro dandosi spesso sanzioni minime di fronte a colpe massime. Cane non mangia cane, dice il proverbio; e il magistrato - senza voler dare dell’animale a nessuno - non è diverso dal quadrupede domestico. Il capo dello Stato, che, ribadisco, è presidente del Csm, prenda atto che così com’è il parlamentino delle toghe non funziona e solleciti il Parlamento a varare una riforma che trasferisca i poteri di controllo e nomina a un organismo terzo, in cui né la politica ma nemmeno i giudici abbiano voce in capitolo. Quello sì, più di tante prediche inutili, sarebbe un colpo alle consorterie che regnano nei tribunali. Se fosse il capo dello Stato a sostenere una simile iniziativa, forse si potrebbero mettere d’accordo non dico i giudici, i quali sono da sempre contrari a ogni riforma, ma almeno maggioranza e opposizione. E almeno di questo Napolitano potrebbe andare fiero.