L'editoriale

Tatiana Necchi

Alla fine avrà avuto ragione Antonio Pennacchi, l’autore di “Canale Mussolini”, il bel romanzo che ha vinto lo Strega. L’hanno sempre definito uno scrittore fasciocomunista. O forse è lui stesso a essersi dato quell’insegna. In tanti devono aver pensato: il fasciocomunismo non esiste. È una contraddizione in termini. È un ossimoro, l’accostamento di due concetti contrari. Tutto sbagliato. L’ossimoro eccolo qua. Ha il volto abbronzato e le cravatte rosa di Gianfranco Fini: il primo, vero fasciocomunista d’Italia. Gli scribi che frugano nella politica, a cominciare dal sottoscritto, debbono essere grati al presidente della Camera. Lui è la prova vivente che le vicende dei partiti possono essere appassionanti. Tanti anni fa, un grande direttore come Gaetano Afeltra mi disse: «Tu sei un cronista politico che se la cava  sempre. E sai perché? Rendi giallo l’ovvio». In quel modo, Afeltra riconosceva i miei sforzi per rendere avvincenti le cronache di un congresso di partito, di una crisi di governo, di un litigio fra correnti. Se oggi stessi ancora sul fronte del giornalismo d’intervento, sarei disoccupato. Nessuna ricerca del giallo potrebbe essere all’altezza dei colpi di scena che Fini prepara per noi. Da molti mesi, sulle prime pagine dei quotidiani, campeggia una mossa, una trovata, un exploit del presidente della Camera. Tanti direttori si augurano che l’ex capo di Alleanza nazionale rinunci alle ferie d’agosto. Senza di lui sarebbe impossibile offrire ai lettori la sorpresa, la scossa, l’imprevisto che aiuta la vendita della carta stampata, ne attenua i passivi, allontana lo spettro dei licenziamenti. Ma la sorpresa più grande deve ancora venire. E non la vedremo domani, né dopodomani. La mutazione di Fini ha ritmi veloci, però non fulminei. Chi lo conosce da vicino, lo descrive come un ottimo tattico, più che uno stratega o un ideologo. Sa che bisogna marciare con un ritmo deciso, ma senza correre a rompicollo. E sa altrettanto bene che, cammin facendo, il traguardo si precisa. Sino a diventare sempre più nitido quanto più è vicino. Me ne sono accorto nel marzo dell’anno scorso, quando scrissi un lungo ritratto di Fini. A cominciare dai primi passi, quelli che a molti sembrarono azzardati: il distacco dal mondo fascista in cui pure era cresciuto. Sto parlando del fascismo condotto sino al suo tragico epilogo: la Repubblica sociale italiana e la sconfitta nella guerra civile. Il padre di Fini, Argenio, classe 1923, era stato un volontario della Divisione “San Marco”. Un marò del generale Farina, il comandante di una delle quattro grandi unità addestrate in Germania e poi condotte in Italia per combattere i partigiani. Argenio Fini era scampato alle mattanze dei vincitori comunisti nel dopoguerra. Chi non aveva avuto la stessa fortuna era stato un suo cugino. Quel parente si chiamava Gianfranco Milani e aveva vestito la divisa della Guardia nazionale repubblicana a Bologna. Il 26 aprile 1945 venne sequestrato dai partigiani rossi a Monghidoro, un comune della provincia. Da allora sparì nel nulla, come tanti altri militi fascisti. Aveva compiuto vent’anni da pochi giorni. E quando il futuro presidente della Camera nacque a Bologna, il 3 gennaio 1952, venne chiamato Gianfranco in memoria di quel ragazzo assassinato. Senza interrogatori, senza processo, senza niente di niente. Le mie ricerche sulla guerra civile mi hanno insegnato che, nel mondo dei vinti, non succede quasi mai che le vicende famigliari vengano annullate. È una costante che vale non soltanto per i genitori, i fratelli e le mogli di chi ha perso la vita, ma anche per i figli, i nipoti, i pronipoti. Il sangue versato e il silenzio imposto dai vincitori rendono la memoria uno scudo infrangibile. I vinti non dimenticano. E quasi mai cambiano campo, anche quando arrivano a pensare che i loro morti abbiano sofferto per una causa sbagliata. Fini non appartiene a questa etnia. Da leader politico ha imparato presto a conoscere due verità: il cinismo è una virtù e la gratitudine un peccato. Lo conferma il suo rapporto con Silvio Berlusconi, l’uomo che lo aveva sdoganato, avviandolo sulla strada del successo. Anche qui siamo nella preistoria del presidente della Camera. E vale la pena di spendere qualche riga su quanto accadde la bellezza di diciassette anni fa. Era il martedì 23 novembre 1993. Due giorni prima, a Roma si era votato per il sindaco. Fini, in quel tempo leader del Msi, aveva raccolto 619mila voti, il 35,8 per cento, un record per il suo partito. Ma il candidato di centro-sinistra, Francesco Rutelli, l’aveva superato, sia pure di poco: 684mila voti, il 39,6 per cento. Dunque si doveva andare al ballottaggio. Quel martedì arrivò a Casalecchio di Reno, siamo sempre nella provincia rossa di Bologna, un signore che di nome faceva Silvio Berlusconi. Doveva inaugurare un supermercato, roba sua. Il Cavaliere aveva compiuto da poco i 57 anni e vantava un fisico asciutto, non inquartato come oggi. Un cronista gli chiese per chi avrebbe votato al ballottaggio fra Rutelli e Fini. Silvio si aspettava la domanda. Non per nulla, erano presenti i tre telegiornali della Fininvest e un pattuglione di giornalisti. Senza esitare rispose: «Se abitassi a Roma voterei per Fini. Il segretario del Msi rappresenta bene i valori del gruppo moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d’impresa. Insomma, il liberismo». Subito dopo, Silvio preannunciò la propria discesa nel campo della politica: «Se le forze moderate non si uniranno, dovrò bere io l’amaro calice». Cominciò a Casalecchio di Reno la seconda vita politica di Fini. Sempre meno fascista, sempre più antifascista. Grazie a una sequenza incalzante di strappi successivi che ho già rievocato più volte, anche per i lettori di “Libero”. Li ho visti rammentati ieri sul “Sole-24 Ore” da un eccellente storico, Miguel Gutor. Lui osserva, con ragione, che Fini ha cannibalizzato più di un’idea guida della cultura progressista italiana. Dall’immigrazione all’integrazione degli extracomunitari, dall’antifascismo alla Resistenza. Nel marzo 2009, quando pubblicai il lungo ritratto di Fini, lui mi cercò al telefono per farmi un rilievo cortese. Allora gli dissi: «Non capisco, presidente, dove stia andando, strappo dopo strappo». Fini mi diede una risposta che mi lasciò di stucco: «Le confesso che non lo so neppure io». Ma adesso forse lo sa: verso un approdo fasciocomunista. La mia è soltanto un’ipotesi, però non credo sia campata in aria. Proviamo a fare due più due. Neppure un tattico astuto come lui, potrà restare a lungo fra i rottami del PdL. Prima o poi, volente o nolente, sarà costretto ad andarsene. La rottura sarà traumatica, ci ha avvertito il suo aedo del momento, Italo Bocchino. Da dove verrà il trauma? Non credo dalla fondazione di un altro partitino, sarebbe un misero traguardo. Fini ha ambizioni assai più alte: guidare la coalizione che cercherà di battere il Cavaliere, nel caso di elezioni anticipate. Il nuovo blocco non sarà più di centro-sinistra, ma avrà un’altra insegna che richiami la legalità, la giustizia, la questione morale. Tuttavia le truppe saranno soprattutto quelle del Partito democratico. E forse anche più rosse. Ve lo immaginate un ticket Fini-Vendola? Io sì. Sarà il trionfo del fasciocomunismo, alla faccia degli orfani della Balena democristiana. Che tuttavia ci staranno, nella speranza di liquidare il Caimano. Del resto, perché stupirsene? Anche in politica, spesso gli estremi si toccano. E a chi non è d’accordo non resterà che toccare un altro aggeggio: un robusto ferro di cavallo.