L'editoriale

Tatiana Necchi

Nicola Cosentino non è né il primo né sarà l’ultimo sottosegretario costretto a lasciare. Anni fa, regnante Prodi, ne ricordo uno che fu rimosso a cannonate, perché era asserragliato nel suo ufficio e non intendeva in alcun modo togliere il disturbo. Un disagio che, essendo l’uomo accusato di frequentazioni mafiose, era piuttosto forte, soprattutto per un governo come quello del professor Mortadella, il quale della lotta alle cosche si è sempre riempito la bocca, pur svuotando le galere con le amnistie.  Il sottosegretario più inamovibile della storia si chiamava Angelo Giorgianni. Era un magistrato che, negli anni dopo Mani pulite, a Messina si era guadagnato il soprannome di  “Di Pietro del Sud” per aver indagato 130 politici e perché aveva una scorta più imponente di quella del presidente degli Stati Uniti. Avendo messo le manette a mezza classe politica siciliana, fu premiato con un posto al Viminale, vice dell’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano. Quando lo accusarono di fare gite in barca con un boss e di aver inspiegabilmente dimenticato nel cassetto alcune inchieste, volarono gli stracci e fu necessario l’intervento del presidente del Consiglio per liberare l’ufficio. Ho raccontato la storia del viceministro che non se ne voleva andare per far capire che i sottosegretari passano, i governi restano: morto uno, se ne fa un altro. La storia di Cosentino non è dunque di per sé drammatica, soprattutto per un esecutivo che ha già perso qualche ministro, uno nominato a sua insaputa, l’altro che senza saperlo si era fatto pagare la casa. Berlusconi non soffrirà certo per la partenza del deputato campano, ma ciò su cui rischia invece di patire ben di più è lo scontro interno alla maggioranza. È evidente che senza l’irrigidimento di Fini, il Cavaliere avrebbe preferito far scivolare l’uscita di scena di Cosentino a data da destinarsi. Ma lo sgambetto del presidente della Camera, che ha inserito in calendario il voto di sfiducia dell’opposizione per la prossima settimana, lo ha messo con le spalle al muro, costringendolo a dimissionare un personaggio che ormai era solo un problema. Il nocciolo della questione dunque rimane il rapporto con il cofondatore, il quale, sapendo di essere impegnato in una sfida mortale, non arretra di un millimetro. Fini fa sapere di volere andare fino in fondo, deciso a tutto, anche a perdere pur di far perdere Berlusconi. Da questa lotta uscirà un solo vincitore e Berlusconi deve decidere se vuole essere lui. Continuare così, andando avanti per i prossimi due anni in una battaglia quotidiana che rischia di sfinirlo e, più probabilmente, di finirlo non ha senso. Al punto in cui si è giunti, serve una scelta. O il premier trova un’intesa con il presidente della Camera, cedendo alle sue richieste e garantendogli un futuro, così da ottenere una tregua che gli consenta di governare senza il continuo braccio di ferro, oppure va allo scontro, deciso ad andare fino in fondo, e se occorre anche a far dimettere Fini. Non è più tempo di indugi perché ormai appare chiaro che non decidere è peggio che decidere.  Forza Cavaliere, si faccia coraggio e tragga il dado. O la pace o la guerra.