L'editoriale

Tatiana Necchi

Conosco Italo Bocchino da 15 anni e non dico di essergli amico solo per non metterlo nei guai con il suo gran capo, il presidente della Camera, il quale essendo allergico anche alle minime critiche non mi ha in particolare simpatia. All’ex vice capogruppo del PdL, ora diventato megafono della corrente che dà del filo da torcere a Berlusconi, mi lega in particolare un episodio di quand’ero direttore del Tempo o, per essere più precisi, di quando fui dimissionato dalla guida del quotidiano romano. Italo, di cui frequentavo la casa nella Capitale, chiese al suo padrino politico, Tatarella, di organizzare una conferenza stampa al Senato contro il mio licenziamento e Pinuccio, l’uomo che ispirò a Fini la svolta di Fiuggi, non si tirò indietro. Fu un bel gesto di solidarietà, per  il quale porto ancora riconoscenza nei confronti di Bocchino. Ho fatto la lunga premessa personale per dire che avendo familiarità con il deputato del Popolo della Libertà da molto tempo, ora stento a riconoscerlo. Più alza i toni della voce e si distingue per la durezza degli attacchi ai suoi compagni di partito e più faccio fatica a ricongiungerlo a quell’altro Bocchino, quello che mi è noto e che apprezzo per la moderazione e l’abilità diplomatica. Ad avermi colpito, in particolare, è stata la richiesta di dimissioni del coordinatore del PdL, Verdini. Come ho scritto, reputo Denis quanto meno un imprudente, perché chi frequenta un portatore insano di misteriose trame come Carboni va in cerca di guai. Ma essere incauto per ora non è ancora un delitto e dunque la condanna impietosa che Bocchino ha emesso, chiedendogli di lasciare il posto, mi è sembrata un po’ azzardata. Ancor peggio mi è parso il riferimento a pericolose intercettazioni nelle mani degli investigatori e che sarebbero in arrivo. Tutto ciò contrasta con l’Italo che conosco io, il quale è sempre stato un garantista, e ha provato sulla propria pelle cosa possono fare alcuni pm anche a chi non ha nulla da nascondere.  Tempo fa, la Procura di Napoli avanzò addirittura una richiesta d’arresto nei confronti del deputato finiano, reo di aver intrattenuto rapporti con un imprenditore della zona in affari con il comune di Napoli e altre amministrazioni. I magistrati intercettarono per mesi le conversazioni dell’industriale e carpirono anche quelle con Bocchino. Italo venne indagato e quando partirono gli ordini di custodia cautelare, i procuratori chiesero di poter utilizzare le chiacchiere al telefono per metterlo ai ceppi. Solo il niet della Corte costituzionale lo salvò dalla galera. I sommi giudici infatti ritennero inutilizzabili le conversazioni, lasciando intendere che erano state fatte proprio con l’intento di incastrare il parlamentare, in violazione della legge che protegge le telefonate di deputati e senatori.    Avendo dunque sperimentato di persona che se si vuole di può impiccare chiunque  a una parola (nel suo caso la frase incriminata era: «Siamo un sodalizio», quasi che fosse in società con l’imprenditore, ma lui spiegò che era stata estrapolata e distorta), mi domando perché ritenga che l’oscura faccenda riguardante Verdini e Carboni sia sufficiente per condannare il coordinatore del PdL alle dimissioni. Finora, nonostante gli sforzi di Repubblica e compagni, si è capito che Denis dovrebbe curare meglio le sue frequentazioni e i suoi soci, cercando di sceglierseli possibilmente tra quelli che non sono habitué di procure e tribunali. Io non so se c’è dell’altro. Se esiste, Bocchino farebbe bene a dirlo chiaro e così ci leviamo il pensiero. Se non c’è, o per lo meno lui ne sa quanto noi, allora mi domando cosa sia successo all’Italo che conosco io. È vero che a stare col giustizialista si impara a giustiziare, ma ci sono storie che ci segnano e dalle quali dovremmo trarre esperienza. E la storia di Tatarella insegna molto. Soprattutto a sommare e non a dividere.