L'editoriale

Tatiana Necchi

Più che la P3 a me quella di Carboni e soci sembra il suo contrario: la 3P, acronimo che sta per Tre Pirla. Leggendo l’ordinanza con cui è stato disposto l’arresto del faccendiere sardo e dei suoi sodali si capisce una cosa, che quella non era un’associazione a delinquere, ma un’associazione da ridere. Secondo l’accusa il vecchio trafficone già noto per Calvi e l’Ambrosiano, il giudice tributario Pasquale Lombardi e l’imprenditore Arcangelo Martino costituivano una potente lobby che cercava di condizionare le istituzioni. La segretissima loggia avrebbe esercitato la sua influenza sulla Corte costituzionale, per ottenere l’approvazione del cosiddetto Lodo Alfano. E poi avrebbe agito nei confronti del presidente della Corte d’appello di Milano, per far riammettere la lista Formigoni alle scorse elezioni. Infine avrebbe provato a designare Nicola Cosentino alla presidenza della Campania, ostacolando con notizie infamanti il suo rivale nel PdL, Stefano Caldoro. Il risultato di tutte le oscure trame è che il Lodo Alfano è stato cancellato dalla Consulta, l’ufficio elettorale presso la Corte d’appello  ha respinto il ricorso della lista lombarda, il sottosegretario all’Economia non è diventato governatore a Napoli, ma al suo posto c’è colui che si voleva diffamare.  Tirando le somme si può dire che l’associazione segreta di Carboni e soci somiglia più a una banda di pensionati pasticcioni che a un’accolita di criminali. Può essere che gli sia andata a segno qualche raccomandazione - probabilmente più millantata che riuscita - ma se si dovesse mettere in galera tutti quelli che provano a piazzare un amico, o che se ne accreditano il merito, altro che sovraffollamento delle carceri: sarebbero più quelli dentro che chi sta fuori. Detto questo, come una simile combriccola di vecchi pataccari sia finita a tavola con Denis Verdini e Marcello Dell’Utri rimane invece un mistero. Come si fa a sedersi a pranzo con Carboni dimenticandosi  che da trent’anni ha le procure alle calcagna? Anche se non si ha nulla da nascondere, l’imprudenza con cui una parte del mondo politico frequenta certi tipi resta per me sempre una sorpresa. Ma a proposito di stupore, la meraviglia più grande è stata la ricostruzione della storia di Flavio Carboni fatta da alcuni quotidiani, in particolare la Repubblica. Il giornale di Ezio Mauro alla P3 ha dato largo spazio, tre pagine oltre al taglio della prima, raccontando la vita del faccendiere sardo, i suoi rapporti con la P2 e perfino un vecchio progetto degli anni Ottanta cui era interessato anche Berlusconi, ma che non si realizzò mai. Le mille vite di Flavio sono passate ai raggi x da Alberto Statera, con corredo iconografico composto da fotografie di Roberto Calvi, Banda della Magliana, Emanuela Orlandi, Pippo Calò e altri. Invece solo tre righe, nascoste nel testo, per dire che a Carboni «era riuscito a ottenere una partecipazione azionaria nella Nuova Sardegna grazie alla simpatia di Carlo Caracciolo». Silenzio anche sui contatti tra Carboni e De Mita. Detta così, sembrerebbe che il piccolo trafficone c’entri col defunto editore di Repubblica solo per caso, anzi, per la generosità  del principe, il quale gli concesse di entrare nel giornale di Sassari per «simpatia». In realtà le cose non stanno così. Non fu Caracciolo a fare un piacere a Carboni, ma quest’ultimo a farne molti al principe. Il primo riguardò proprio la Nuova Sardegna, quotidiano che in seguito al disastro della Sir di Rovelli finì nelle mani del faccendiere grazie ai buoni uffici di Armando Corona, Gran maestro della Massoneria, che di Carboni era amico. Fu il piccolo trafficone dunque a fare un favore a Caracciolo vendendogli poi  la maggioranza del giornale e non so se lo fece per l’amabilità del nobiluomo che presiedeva Repubblica o per altro. So per certo che i rapporti tra i due furono lunghi e proficui, come testimonia  Massimo Teodori, membro della commissione P2 e autore di una controrelazione assai diversa da quella di Tina Anselmi.  Cito alcuni brevi passaggi a firma dell’esponente radicale: «Flavio Carboni  si assicura la benevolenza di Calvi (il bancarottiere del crac Ambrosiano, ndr) dandogli a intendere di tessere una rete di rapporti funzionali a raggiungere gli obiettivi del suo salvataggio personale e finanziario (...). I progetti spaziano in molte direzioni. Per quanto riguarda la stampa Carboni si adoperò con l’amico Carlo Caracciolo affinché fosse raggiunto un patto di non belligeranza, cosa che avvenne qualche mese dopo (...). Per la difesa di Calvi furono previsti interventi illeciti sulla magistratura, sulla stampa e sui politici. Lo stesso Carboni parla addirittura di uno stanziamento di 100 miliardi da parte di Calvi per provvedere alle diverse operazioni di “protezione”. Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso, entra a far parte di quella specie di gruppo di informazione e di azione che più volte Carboni ha dichiarato come il proprio centro di influenza, in ragione degli interessi comuni nel quotidiano La Nuova Sardegna controllato da Corona e Carboni. (...) Per l’intera stagione, dall’autunno 1981 alla morte di Calvi, il gran maestro della Massoneria Armando Corona, l’editore Carlo Caracciolo, il sottosegretario al Tesoro on. Beppe Pisanu (quello che denuncia i rapporti tra mafia e politica, ndr), il consulente del ministro del Tesoro Carlo Binetti, e monsignor Franco Hillary (uomo di Marcinkus, ndr) si riconoscono reciprocamente come un gruppo coeso intorno a Carboni che opera in nome di interessi comuni o convergenti mentre è pronto a sfruttare le disgrazie finanziarie e giudiziarie di Calvi». Fin qui Teodori. Ma forse vale la pena di chiarire alcuni passaggi. Nel 1981 il Banco Ambrosiano e il suo presidente finiscono nel mirino di Repubblica, che dà grande spazio all’inchiesta che la Procura di Milano sta conducendo su Calvi. Il quotidiano di Scalfari, però, all’epoca naviga  ancora in brutte acque e ha bisogno di soldi per tirare avanti. Ecco che allora Carboni si rende utile e fa incontrare Carlo Caracciolo e Calvi, al quale poi verrà richiesto un finanziamento di 10 miliardi di lire, che però non verrà concesso perché non ci sono le garanzie. Di lì a venti giorni Calvi sarà arrestato. Ma gli intrecci tra Repubblica, Calvi e Carboni non si fermano lì. Sarà sempre il faccendiere sardo a far incontrare Calvi e Carlo De Benedetti, il quale poi nell’autunno del 1981 comprò il 2% del Banco Ambrosiano. All’epoca l’Ingegnere non è che nuoti nell’oro, ma grazie a una complicata operazione riesce a farsi prestare un po’ di soldi e li investe nell’istituto di credito milanese, del quale diventa vicepresidente. Poco più di due mesi più tardi De Benedetti litiga con Calvi  ed esce dall’Ambriosiano facendosi ricomprare dal banchiere la propria quota. Non però per 50 miliardi, ovvero per quanto l’aveva pagata, ma per 80. Trenta miliardi di plusvalenza in due mesi e quattro giorni sono un colpo gobbo straordinario, che però, dopo il crac, costerà all’Ingegnere un’accusa per estorsione e  concorso in bancarotta, inchiesta finita nel nulla, con assoluzioni, rinvii e prescrizioni varie. Ma non è questo il punto. Il punto è che qualche mese dopo Carlo De Benedetti si comprò un pezzo dell’Espresso, cioè della società editrice di Repubblica. Commenta Mario Tedeschi, mitico direttore del Borghese e autore  di un libro sul caso Ambriosiano. «Pura coincidenza? Ammettiamolo pure. È certo però che i giornali di Caracciolo e Scalfari, in altri casi, su molto meno hanno costruito atti di accusa chilometrici. E soprattutto è certo che, se la cosa avesse interessato altri, quei giornali non avrebbero ignorato la vicenda della “liquidazione miliardaria” di De Benedetti». Commento del sottoscritto: il lupo perde il pelo ma non il vizio.