L'editoriale
Diversi lettori mi hanno scritto a proposito dell’editoriale di ieri sul tema delle intercettazioni. Molti per complimentarsi, altri per manifestare i loro dubbi. Ai primi ovviamente devo dei ringraziamenti, ai secondi alcune risposte. Vediamo di cominciare dalla principale obiezione che mi viene mossa, cioè di essermi occupato solo della parte relativa alla pubblicazione degli atti di un’indagine sui giornali e non delle limitazioni che la nuova legge pone ai magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità. Vero. Nell’articolo di ieri mi sono dedicato alla questione posta dallo sciopero dei quotidiani, ossia al diritto di informare i lettori e possibilmente di fornir loro notizie che non servano ad usi strumentali o, peggio ancora, a guerre fra bande. Dell’altro aspetto, ovvero degli obblighi che le nuove norme impongono a chi indaga, avevo scritto in passato e ovviamente non ho nessuna difficoltà a ripetere ciò che penso. La critica più dura che viene fatta alla nuova legge riguarda il periodo per cui sono concesse le intercettazioni. Settantacinque giorni sono pochi per poter accertare un reato, ci vuole più tempo. Giusto, se il periodo non fosse prorogabile, com’era nella prima versione del disegno di legge. Oggi invece le norme in discussione prevedono la possibilità di continuare a intercettare anche dopo i due mesi e mezzo, con una proroga di tre giorni in tre giorni. Perché un periodo così breve che costringe il pm a chiedere due volte alla settimana nuove autorizzazioni? Per scoraggiare gli abusi, che in molte procure non sono l’eccezione, ma la regola. Non voglio entrare nella polemica sul numero delle persone intercettate: ognuno dà i numeri che vuole. Mi limito a osservare i costi: tra il 2003 e il 2009 il ministero ha pagato per questo servizio 1,8 miliardi di euro e altri 700 milioni sono stati fatturati ma non ancora liquidati. In totale fanno 2,5 miliardi: un pezzo di manovra. Se poi si considera che certi distretti giudiziari, a parità di procedimenti penali, fanno un uso delle intercettazioni anche 15 volte superiore a quello di altri e che ci sono procure che pagano le attrezzature sei volte più di altre, si capisce che c’è qualcosa che non va. Ma le intercettazioni sono indispensabili alle indagini, è l’altra obiezione che mi è giunta. E chi lo nega. Qualcuno però dovrebbe spiegare che senso hanno, per una sola indagine, 187 mila ore di registrazioni telefoniche e 3.600 ore di registrazioni ambientali: per ascoltarle servirebbero 7.791 giorni, pari a 21 anni. Immaginate quanto tempo ci vorrebbe per trascriverle e metterle nei faldoni giudiziari. Casi limite? Mica tanto, soprattutto se si considera che il 70 % delle intercettazioni è disposto da cinque procure, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Milano. A Torino non delinque nessuno? E a Roma o a Catania? Un lettore mi rimprovera poi di non aver detto che limitando le intercettazioni si rischia di fare un favore a mafiosi e terroristi, i quali non potranno più essere ascoltati dagli investigatori. In realtà per le organizzazioni criminali restano in vigore le norme attuali: quaranta giorni di intercettazioni prorogabili di altri venti e così via, senza particolari complicazioni. Le uniche a subire una variazione sono le intercettazioni ordinarie, che prima si facevano di 15 giorni in quindici giorni e che ora avranno il nuovo meccanismo. Cambia ascoltare una conversazione per 75 giorni e poi dover chiedere una proroga di tre o ascoltarla per due settimane più altre due? A me pare di no. L’unica vera modifica è quella che riguarda le intercettazioni ambientali, nelle case e nei luoghi privati, che dovranno avere un fondato motivo per essere disposte, ovvero il sospetto che si stia commettendo un reato. Una misura che cerca di evitare intrusioni nella vita dei cittadini, in camera da letto o in salotto, limitando l’impatto di uno strumento utile ma invasivo. Certo, si possono criticare e modificare queste norme, autorizzando senza troppi vincoli le intercettazioni ambientali anche per altri reati oltre a quelli di mafia e terrorismo. E forse si potrebbe anche allargare il termine dei tre giorni. Ma servirebbe qualcuno che discutesse pacatamente, senza alzare polveroni e raccontare balle, riconoscendo che il problema delle intercettazioni e del loro abuso esiste. Invece i giornalisti preferiscono gridare a un bavaglio che non c’è. Avendo rinunciato da tempo a far questo mestiere per trasformarsi in uffici stampa delle procure, molti di loro temono infatti di perdere il lavoro. Senza fughe di notizie e verbali in prima pagina sarebbero a spasso. E questo li preoccupa. Più della giustizia e degli innocenti finiti nel tritacarne dei loro articoli.