L'editoriale
Da ieri Michela Brambilla raccoglie le firme contro l’abuso delle intercettazioni, contrapponendo lo slogan «Non vogliamo essere spiati» a quello della sinistra e di Repubblica «Intercettateci tutti». L’iniziativa è lodevole, anche se un po’ tardiva, perché tenta di contrastare un concetto che ha preso piede in questi mesi, cioè che l’intrusione nelle conversazioni e nella privacy dei cittadini sia un problema che riguarda solo chi ha qualcosa da nascondere e non le persone per bene. In realtà le cose non stanno così e vi voglio raccontare tre episodi di cui sono a conoscenza. Ovviamente, frequentando più i colleghi che mia moglie, le vicende hanno per protagonisti dei giornalisti, di cui per ragioni ovvie ometto i nomi. Il primo è un bravo cronista, autore qualche anno fa di uno scoop. Gli inquirenti, per scoprirne la fonte, il giorno dopo la pubblicazione dell’articolo misero il suo telefono sotto controllo. E fin qui nulla di strano, la polizia e i magistrati fanno il loro mestiere. Ma ad essere un po’ meno normali sono le trascrizioni di tutti i contatti telefonici con amici, parenti e conoscenti da lui chiamati. In pratica negli atti giudiziari sono finiti quattro mesi di telefonate, con tanto di annotazioni su tutti gli utenti chiamati dalla fidanzata del collega: la mamma, il medico, il datori di lavoro e così via. Un piccolo dossier, ma soprattutto un’invasione nella vita di una persona che aveva il solo torto di frequentare un giornalista, e una violazione grave del diritto alla riservatezza di tanti altri signori che a loro volta non avevano fatto nulla di male, ma erano semplicemente conoscenti della fidanzata. Il secondo caso riguarda un altro giornalista, uno dei più bravi che ho conosciuto. I suoi scoop erano talmente tanti che gli inquirenti un bel giorno decisero di mettergli il telefono sotto controllo. Lo intercettarono per un anno ma non scoprirono nulla. O meglio: scoprirono qualche scappatella. Nulla di penalmente rilevante, solo storie affettuose, che qualcuno s’incaricò però di far conoscere al coniuge con una telefonata anonima, recapitando anche i tabulati. Non avendo identificato le fonti del collega, probabilmente ci fu chi pensò di metterlo fuori gioco così. Tra marito e moglie finì con una separazione e il risultato fu conseguito: per un certo tempo il cronista ebbe altro cui pensare e i suoi scoop si diradarono. Terza storia. Anni fa un funzionario dello Stato era in corsa per un’importante carica. Naturalmente, come accade spesso, c’erano altri che volevano essere promossi al posto suo, i quali s’incaricarono di fargli uno sgambetto. Il funzionario aveva una relazione affettuosa con una giornalista, con cui s’intratteneva spesso al telefono, lasciandosi andare a telefonate hot. Con uno stratagemma, una finta violazione del segreto istruttorio da parte della cronista, furono messi sotto controllo i telefoni, poi dopo settimane di trascrizioni ad alto contenuto erotico ci fu chi provvide a far girare in ambienti riservati i brogliacci. Risultato? La promozione sfumò. Di storie ce ne sarebbero altre, ma mi fermo qui. Perché ho raccontato queste vicende? Perché all’ombra delle indagini giudiziarie si consumano anche gravi violazioni dei diritti dei cittadini e vendette dei corpi dello Stato che nulla hanno a che fare con la lotta al crimine. Non solo chi è un delinquente ha dunque qualcosa da temere se si costituiscono dossier con le conversazioni private, ma anche i cittadini per bene, i quali possono essere incidentalmente coinvolti in un’inchiesta rischiando di venirne schiacciati. Una volta la sinistra era la paladina del diritto alla riservatezza e temeva come la peste l’invasione degli apparati di polizia nella vita delle persone. Neppure la sicurezza nazionale era ritenuta sufficiente a giustificare la sospensione dell’articolo 15 della nostra Costituzione che tutela il diritto alla riservatezza. Per questo negli anni Settanta L’Espresso denunciò il generale De Lorenzo, il comandante del Sifar che accumulò informazioni su politici e giornalisti in appositi faldoni. Per questo la Repubblica, spalleggiata dal Pci e dalla sinistra extraparlamentare, per anni ha criticato l’interferenza dello Stato nella vita dei cittadini. Ora, pur di abbattere Berlusconi, il fronte progressista preferisce far credere che milioni di telefoni sotto controllo con i più superflui pretesti siano una cosa normale, anzi un sistema democratico fatto apposta per tutelare le vite degli altri. Povera sinistra: fino a qualche tempo fa pensavo avesse solo perso la bussola, ultimamente credo proprio che abbia perso anche la testa. Se rinuncia anche a quel po’ di diritti che fanno parte del suo Dna, vuol proprio dire che è finita.