L'editoriale

Tatiana Necchi

Ciò che sta accadendo in queste ore alla legge sulle intercettazioni mi riporta  indietro nel tempo, all’epoca del secondo governo Berlusconi. Come spiegavo  giovedì scorso,  è ormai di tutta evidenza che a forza di modifiche le nuove  norme sono irriconoscibili e non servono a quello per cui erano state pensate.  Non alla tutela della privacy, meno ancora a impedire che dei pm spregiudicati  usino la stampa per farsi pubblicità durante le indagini. Per di più ieri  il  Cavaliere ha annunciato la disponibilità ad annacquare ancora un po’ il testo,  così che tra breve avrà la stessa utilità dell’acqua fresca nella lotta contro  il tumore. Naturalmente il premier è stato costretto a cedere obtorto collo, a causa  delle trappole che Gianfranco Fini ha disseminato lungo la strada per l’ approvazione del provvedimento. In cuor suo avrebbe voluto una legge dura, ma  per evitare il peggio si appresta a vararne una molle. Ed è proprio l’attuale  situazione che mi ha fatto ripensare a un colloquio che ebbi con il Cavaliere a  metà della legislatura conclusasi nel 2006. Era sera e il premier appariva  stanco e sfiduciato, dopo una giornata passata a litigare con Follini, Casini e Fini. Non vedeva vie d’uscita, costretto com’era a un interminabile e  inconcludente tira e molla. Ricordo che per rialzarne un po’ l’umore lo invitai  a mandare tutti a quel paese e tornare dagli elettori, i quali erano i soli a  poter metter fine a un gioco dei ricatti che andava avanti da mesi. «Avrei voglia», mi rispose lui, «ma non posso farlo. Se rompo come faccio a ripresentarmi agli italiani di nuovo unito con l’Udc? Dovrei correre da solo,  ma senza il 5% di Casini perderei e regalerei il governo all’opposizione».  Il  ragionamento aveva una sua logica: l’Italia è un Paese spaccato in due, dove si  vince o si perde per poche manciate di voti, dunque anche le pochissime dell’Udc  risultavano determinanti. Risultavano. Perché poi come si è visto quando il Cavaliere ha deciso di far  da solo e di fondare il Popolo della Libertà, imbarcando solo chi ci stava e  mollava il suo partito, ha vinto pur non essendoci l’Unione di centro. Se  ricordo ora la vecchia storia delle liti con Casini e amici, lo faccio perché  immagino che anche in queste ore, mentre il presidente della Camera lo ha messo  sotto scacco, Berlusconi abbia gli stessi pensieri e sia giunto alla  conclusione cui arrivò anni fa. Vorrebbe rompere e mandare a casa Fini, ma non  lo può fare perché teme di perdere le elezioni  a causa del 4 o 5%  di cui è  accreditato l’ex leader di An qualora uscisse dal PdL.  Se ci si fida dei  numeri, certamente il premier ha ragione a farsi cauto e a ingoiare il rospo di  una minoranza nella maggioranza che comanda a bacchetta il governo. Ma, se si  mettesse da parte il pallottoliere, e ci si affidasse all’intuito, allora i  risultati potrebbero essere diversi. A stimare al 5 o, addirittura, 7% il  valore dei finiani sono gli stessi istituti di previsione che non c’azzeccano  quasi mai quando si vota: fosse per loro il Cavaliere sarebbe stato sconfitto  non so quante volta e ciò dimostra che scambiano i loro desideri  con i dati, e  più della scienza c’è di mezzo la fede politica. Insomma, il centrodestra non può vivacchiare. Nell’arte di tirare a campare l’esperto è Andreotti, non Berlusconi, dunque urge una scossa, per evitare di  finire come nel 2006, quando un esecutivo impantanato nelle beghe tra alleati  fu costretto a cedere il passo a Prodi. Fossimo alla Fiat diremmo che c’è  bisogno di una marcia dei 40mila, ma siccome non parliamo d’automobili, ma di  politica, l’unica idea che ci viene in mente è la marcia con cui i gollisti  misero fine al Sessantotto francese. Visto che ormai le fondazioni e i  movimenti nel centrodestra crescono come funghi (l’ultima è di ieri, a guida Gelmini-Frattini), si rendano utili: convochino una manifestazione a sostegno  della linea di governo, facendo sentire la voce degli elettori. Non saranno  elezioni, ma sarà come se lo fossero. Gli italiani ringrazieranno.