L'editoriale

Tatiana Necchi

Ieri Silvio Berlusconi ha minacciato di non sottoscrivere il contratto tra Rai e governo. Fosse vero, per viale Mazzini sarebbe la fine, perché senza i soldi che lo Stato versa in cambio del servizio pubblico l’emittente chiuderebbe in poco tempo. Ovviamente l’intenzione è stata prontamente smentita dal portavoce di Palazzo Chigi, spegnendo sul nascere ogni polemica. Il proprietario di Mediaset non può infatti ammazzare per decreto la diretta concorrente del suo gruppo e dunque della decisione, se mai era stata presa, non si farà nulla. Ma se ci si estrania per un momento dalle questioni legate al conflitto d’interesse e si ragiona andando al sodo, ovvero alle ragioni per cui la Rai debba ancora essere considerata una tv al servizio del pubblico, non si potrà non convenire che da tempo essa non è affatto dalla parte dei cittadini. Intendiamoci: l’ente guidato da Paolo Garimberti non è mai stato la Bbc , semmai ha sempre espresso la voce del padrone, inteso come esecutivo pro tempore. Negli anni del centrosinistra e del compromesso storico a decidere erano i partiti, che a Saxa Rubra hanno lottizzato anche l’aria che si respirava. Come diceva Enzo Biagi, che quegli studi li frequentò a lungo, in Rai se c’erano da assumere quattro persone tre erano raccomandate da qualcuno, la quarta, forse, era scelta tra i meritevoli. Insomma, dagli anni Settanta fino al Novanta ai piani alti di viale Mazzini hanno sempre comandato le segreterie di Dc, Psi e Pci, con qualche rara incursione dei socialdemocratici. Finita la prima Repubblica è però finito anche il ferreo controllo che questa aveva sull’emittente pubblica. O meglio: i partiti non hanno rinunciato a esercitare la loro influenza, raccomandando questa o quella showgirl, ma in realtà chi conta più di tutti è il partito della Rai, un movimento che non ha segretari né sezioni, ma è in grado di condizionare come nessun altro ogni scelta, togliendo al consiglio di amministrazione e alla direzione generale gran parte delle possibilità di gestione dell’azienda. Questo partito non risponde a nessuno: non al governo o alla maggioranza, ma nemmeno all’opposizione, che pure per un certo tempo si era illusa di averlo alleato nella lotta contro il Cavaliere. È come se l’equipaggio di una nave si fosse ammutinato, andando alla deriva ma pretendendo che l’armatore continui a pagare gli stipendi e garantire i rifornimenti. Di quanto sia praticamente impossibile cambiare qualcosa, se non i soprammobili nella stanza del presidente, ne sono prova le recenti vicende che hanno riguardato Michele Santoro e Paolo Ruffini. In nessuna azienda o giornale i direttori sono inamovibili per sentenza e se così non fosse avremmo ancora Eugenio Scalfari a Repubblica, Giulio Anselmi alla Stampa, Paolo Mieli e forse, tornando indietro con la memoria, Piero Ostellino al Corriere. In Rai fino a ieri i direttori potevano essere spostati ma non licenziati: restavano in azienda e percepivano lo stipendio anche senza fare nulla. Ma ora non si possono neppure spostare, perché le procure sono pronte a reintegrarli. Che il partito della tv pubblica si consideri proprietario dell’emittente lo dimostra anche la polemica seguita ai cambiamenti alla conduzione del Tg1 della sera. Le colleghe sostituite hanno gridato allo scandalo, contestando una normale scelta, da sempre di competenza della direzione di un telegiornale. Tutto ciò dimostra che ormai viale Mazzini è una faccenda loro, degli aderenti al partito Rai. Non c’è nulla da fare. Non c’entra Masi o chiunque un altro si mettesse al suo posto. La tv di Stato è persa: proprietario di fatto è quell’enorme apparato burocratico e giornalistico che, mentre i partiti litigavano, se n’è impadronito e ora ne fa un uso privato.  Converebbe rassegnarsi. Anzi. Converebbe stabilire che, come uno di quei locali occupati da centri sociali, l’unico modo per rientrarne in possesso è la demolizione. Nel caso della Rai non servono le ruspe a Saxa Rubra. Basterebbe vendere, privatizzare. Solo così si riuscirebbe a contrastare un’indebita appropriazione.