L'editoriale
Mai avevamo assistito al suicidio politico di un leader e mai avevamo visto un capo dissipare, in poco tempo e con tale determinazione, un patrimonio di consensi. Gianfranco Fini invece lo ha fatto. Aveva detto che avrebbe parlato chiaro e ieri non ha tradito le attese, lanciandosi in un’arena in cui i banderilleros lo aspettavano per fiaccarlo prima di farlo matare dal torero. Il presidente della Camera, un uomo cresciuto dentro i partiti e a conoscenza delle mille astuzie congressuali, si è immolato quasi con ingenuità in una battaglia che da subito era apparsa a tutti già persa. Ancor più lo è sembrata ieri mattina, quando è stato chiaro che molti dei cinquanta parlamentari i quali si erano schierati martedì dalla sua parte erano pronti a passare col vincitore o, in qualche caso, vi erano già passati. Mentre ad uno ad uno ministri ed ex colonnelli del PdL lo infilzavano, neppure uno degli uomini della guardia armata di Fini ha voluto prendere la parola in sua difesa. Il presidente della Camera è rimasto isolato e la sua solitudine si è colta ancora di più quando Berlusconi lo ha attaccato. Un Fini nervoso, poco padrone di sé, si è alzato e senza microfono, come un delegato qualsiasi, ha cercato di replicare. Quello balzato in piedi non era l’ex leader di un partito della maggioranza, nemmeno la terza carica dello Stato, ma un uomo ferito che reagiva d’impeto. Onore a Fini per non essersi nascosto. Rispetto per una battaglia combattuta a viso aperto. Ma quanta pena per un uomo politico che non è riuscito a gestire la sua trasformazione da leader di un’opposizione senza sbocco a esponente delle istituzioni oltre che cofondatore del partito di maggioranza. Fini è caduto sul carattere e lo si è visto proprio ieri quando è scattato per replicare al Cavaliere. Cosa farà Gianfranco ora che si è usciti dall’equivoco e Berlusconi ha dimostrato di poter contare su una maggioranza schiacciante e sul partito nella sua quasi totalità? Difficile a dirsi. Dopo aver perduto l’equidistanza necessaria per esercitare le funzioni di presidente della Camera, il buonsenso imporrebbe che si dimettesse, ma è assai improbabile che ciò avvenga. In tal caso Fini ha solo due strade: o si oppone al capo del governo cercando di mettergli i bastoni fra le ruote forte del suo incarico a Montecitorio oppure si rassegna a un ruolo minore. Non sappiamo quale delle due strade sceglierà. Ma se dovessimo giudicare dallo scatto d’ira di ieri, propenderemmo per la prima ipotesi. Nel qual caso sarà davvero l’ultimo atto di un suicidio. P.S. Ieri Berlusconi, per replicare all’accusa di aver armato il Giornale contro Fini, ci ha tirati in ballo, sostenendo che Libero sia stato più critico nei confronti del cofondatore di quanto non lo sia stato il quotidiano della sua famiglia e aggiungendo che Libero è proprietà di un finiano. Non sappiamo se il nostro giornale sia stato più o meno critico di altri nei confronti del presidente della Camera: di solito non ci occupiamo di questo genere di graduatorie. Di sicuro, però, possiamo dire che Libero lo è di nome e anche di fatto. La testata è di proprietà del gruppo Angelucci, ma la gestione è affidata a una fondazione indipendente. È da questa che ho ricevuto l’incarico di dirigere Libero e da questa, prima di accettare, ho preteso la garanzia di poter rispondere non a Fini o a Berlusconi, ma solo ai lettori. Gli otto mesi in cui ho guidato il nostro giornale credo ne siano la dimostrazione. Quando a parer nostro si è presentata l’occasione, non abbiamo risparmiato critiche né al capo del governo né al presidente della Camera e neppure ad importanti ministri. Il centrodestra è idealmente il nostro punto di riferimento, non il nostro padrone. Di padroni ne abbiamo tanti e sono coloro i quali si recano ogni mattina in edicola. A loro solo rendiamo conto. Non a Fini. Non a Berlusconi. E meno ancora alla sinistra.