L'editoriale
Gianfranco Fini moriva dalla voglia di rimettersi in proprio. Avrebbe voluto farsi un partito, tornare a prima del 2008, quando l’improvvisa caduta del governo Prodi gli fece ingoiare il PdL, minestra che solo la minaccia di una batosta elettorale lo convinse a mangiare. Ma dopo aver lasciato annunciare dai suoi fedelissimi la nascita di gruppi autonomi alla Camera e al Senato, deve essersi reso conto che qualcosa non funzionava nel verso giusto e pochi l’avrebbero seguito in quella che reputavano un’avventura. Troppo rischioso lasciare il porto sicuro del Popolo della Libertà per una nuova formazione di incerta origine, soprattutto troppo pericoloso esporsi senza rete di protezione, non essendovi alcuna certezza di una prosecuzione della legislatura o per lo meno l’assicurazione di essere ricandidati alle prossime elezioni. Mentre i finiani duri e puri erano pronti alla battaglia tanto d’aver scavalcato a parole perfino il proprio leader, gli altri si sono dimostrati più cauti e questo deve aver indotto il presidente della Camera ad adottare maggior prudenza, ridimensionando i propositi guerreschi. Fini, dopo aver minacciato di far la guerra a Berlusconi, si rassegna dunque alla guerriglia. Non esce dal PdL, ma resta per dare fastidio. Come lui stesso ha spiegato, non toglie il disturbo, ma anzi si prepara ad azioni di disturbo. E in cosa si concretizzeranno queste ultime è facile immaginarlo. E’ quasi certo che l’ex alleato cercherà di tendere qualche imboscata sui temi della giustizia, argomento assai caro all’attuale maggioranza e ancor più al presidente del Consiglio. Ma soprattutto Fini proverà a contrastare la Lega, col risultato quasi ovvio, come altri hanno notato, di rafforzare l’alleanza fra Bossi e Berlusconi. Probabilmente tenterà, come già fece inutilmente nel passato, di incalzare Tremonti, al quale ieri ha dato atto d’aver fatto bene ma imputandogli allo stesso tempo un eccesso di rigore. La sensazione è che alla fine il presidente della Camera otterrà solo di alimentare la conflittualità nella maggioranza ma molto difficilmente riuscirà a incidere sulla linea del partito. Anche perché fino ad oggi, oltre schierarsi contro la Lega e Tremonti, non è riuscito a indicare al governo alcuna proposta alternativa: né sul tema del federalismo né sulle politiche economiche. E nonostante Fini si sforzi di darsi una patina di modernità, sposando le battaglie etiche e paventando la nascita di una destra europea, raffinata e chic, egli appare sempre più un politico della prima Repubblica, abile nei giochi di potere e nelle manovre di palazzo, ma incapace di sentire i veri umori del Paese. L’iniziativa intrapresa dal presidente della Camera è infatti distante anni luce non da Berlusconi, ma dal proprio elettorato, il quale prima ancora del presidente del Consiglio ha la sensazione che Fini gli abbia voltato le spalle. Di questo passo, se non riuscirà a correggersi, l’ex pupillo di Almirante è destinato a concludere in maniera deludente la propria carriera politica. A questo punto sta a Berlusconi decidere se tenere al suo fianco un politico “vecchio”, se non dal punto di vista anagrafico di sicuro nel modo di agire. Un rivale interno che avrà come principale occupazione quella di rendere la vita difficile al partito, alla maggioranza e al governo. Oppure se non sia meglio abbandonare Fini alla corrente che lo sta portando fuori dal PdL. Numeri alla mano, non dovrebbe essere una gran perdita: così come ieri ha perso quasi due terzi dei deputati e senatori che contribuì a portare in Parlamento sotto le insegne del PdL, domani Fini potrebbe essere abbandonato in egual misura dai suoi elettori.