L'editoriale

Eleonora Crisafulli

Chiudere bottega. Sciogliersi. Sparire e diventare un’altra cosa. È quello che sento dire sempre più spesso da molti amici che votano per il Partito democratico. Non parlano degli avversari, ma di se stessi, della loro parrocchia politica. La sconfitta nelle regionali è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Adesso non credono più che il partito possa salvarsi. Non credono più nella forza di Bersani. Non credono più nell’utilità di far rientrare in gioco i vecchi santoni post-comunisti, come Massimo D’Alema o Walter Veltroni. E soprattutto non credono più che il Pd sia in grado di sopravvivere nella Terza repubblica appena iniziata. A sentire questi credenti diventati miscredenti, le condizioni del Pd sono all’incirca quelle della Juventus. La magica Zebra bianconera è alle corde. Proprietà in stato confusionale. Manager sempre più inadatti al compito. Allenatore bravo, ma senza autorità. Giocatori spompati, incerti sul campo, con poca stima di se stessi, sgomenti per quanto sta accadendo. Certo, una società di calcio non può chiudere, perderebbe il capitale. Ma un partito, se vuole, può farlo. Per non perdere del tutto il capitale che lo riguarda, i voti. E per rinascere e conquistare nuovi elettori. La fine del Pd può sembrare una soluzione drastica che cancella tutte le speranze. Ma non è così. E comunque è imposta da una serie di circostanze che qui ricorderò in modo essenziale. Prima di tutto, da quasi due anni il Pd sta perdendo una battaglia elettorale dopo l’altra. Per limitarci alle Regioni, ha perso l’Abruzzo, la Sardegna, il Piemonte, il Lazio, la Campania, la Calabria. Una legnata da ricovero in ospedale. Con l’aggravante che il vertice del partito si è subito affrettato a negare la sconfitta.  Il secondo guaio del Pd è che, di fronte alla batosta, si sono rifatti vivi gli antichi padroni del partito, a cominciare da D’Alema e da Veltroni. Non sono usciti dal limbo per incoraggiare il segretario Pier Luigi Bersani, ma per segargli le gambe. Lo spettacolo è diventato grottesco. Si è visto un sopravvissuto come Veltroni annunciare una sua fondazione, per non essere da meno del compagno Max. Un proposito poi rinviato per l’opposizione degli stessi veltroniani. Compagni di buonsenso e per niente ansiosi di sfondare il muro del ridicolo per soddisfare le smanie di rivincita che eccitano “Uolter”. Proprio le frecce avvelenate dirette su Bersani ci svelano un terzo guaio del Pd. Il partito è diventato un territorio di guerra interna dove i segretari durano lo spazio di un mattino. Fra il 2009 e il 2010 ne abbiamo visti passare tre. Prima Veltroni, poi Dario Franceschini, quindi Bersani. Oggi si annunciano nuovi arrivi. Non è un mistero che Nichi Vendola, l’unico vincitore rosso in un’area difficile, voglia conquistare il rango di leader. Ma nessuna azienda resisterebbe a un turn over così sfibrante. Può resistere un partito? Credo di no.  Gli altri guai Del quarto guaio è responsabile Bersani. È stato lui a cedere quote importanti di potere a soggetti esterni troppo forzuti e vogliosi di comandare. Uno è Antonio Di Pietro, capo di un partito carnivoro che ha per unico scopo divorare il Pd. L’altro è “Repubblica”, ormai tanto decisiva nell’elettorato democratico da poter invocare l’arrivo di un Papa straniero, ossia di un leader esterno al partito. L’ultimo padrone nascosto è un alieno a più teste: il televisionismo rosso, guidato da un ras imbattibile come Michele Santoro. Sono state queste tre forze superiori a dettare il tono e il ritmo della campagna elettorale democratica. Puntando tutto sull’avversione radicale a Silvio Berlusconi. Il risultato l’abbiamo visto.  Il quinto guaio deriva da un grave peccato d’omissione compiuto da Bersani e dal suo team di cervelloni. Avevano un grande obiettivo davanti a sé: iniziare il recupero degli elettori socialisti che nel 1994 erano passati dal Psi a Forza Italia e quindi al Popolo della Libertà. Ecco uno scopo esistenziale anche per il partito che nascerà sulle ceneri del Pd. Per spiegarmi meglio, presenterò qualche dato numerico.  Prima di Tangentopoli Le ultime elezioni politiche prima della catastrofe di Tangentopoli si era tenute il 5 e il 6 aprile 1992. In quell’occasione, votarono per il Psi, ancora guidato da Bettino Craxi, 5 milioni e 343 mila elettori, il 13,6 per cento. Per offrire un termine di confronto, la percentuale del Pds (ex Pci) fu del 16,1. Poi il Psi di fatto sparì. Due anni dopo si ritornò a votare e fu il trionfo di Forza Italia. Quanti voti socialisti passarono a Berlusconi? Di certo davvero tanti. Così come furono tantissimi i democristiani che non votarono per il Partito Popolare guidato da Mino Martinazzoli, bensì per il forzismo del Cavaliere.  Come sappiamo, il Pd era nato con l’ambizione di raccogliere sotto le proprie bandiere non soltanto gli ex-comunisti, ma pure cattolici, socialisti e laici. Doveva essere questa la forza vera del partito nato con Veltroni. Ma allora ci sono due domande inevitabili. Quell’obiettivo è stato raggiunto? No. Si è almeno tentato di raggiungerlo? Neppure. Il Pd di Veltroni, di Franceschini e di Bersani ha soprattutto snobbato i socialisti. E non ha fatto niente per offrire asilo alla diaspora che dal defunto Psi era emigrata verso Berlusconi. Leader superati Perché questo tentativo è rimasto sulla carta, ammesso che qualcuno abbia previsto di compierlo? La spiegazione rivela il peggiore dei guai del Pd. Il partito oggi guidato da Bersani è vecchio. È logorato dalla sua stessa storia. È guidato da leader sorpassati, incapaci di strategie innovative e tuttavia boriosi come un tempo. È sempre più lontano dalla società italiana del 2010. Non è la prima volta che lo scrivo. Ma oggi ho trovato un testimone eccellente che è difficile smentire. Il testimone è Michele Salvati, l’intellettuale che è stato il primo teorico del Pd. Intervistato la domenica di Pasqua da Tommaso Labate del “Riformista”, Salvati non ha peccato di reticenza. Ha detto: «Il Pd non è per niente un partito nuovo. È un soggetto politico da Prima Repubblica. La somma di due vecchie culture che non hanno la benché minima idea di come sia cambiata l’Italia». Le culture, ha spiegato Salvati, sono quelle di «un po’ di ex comunisti convertiti alla socialdemocrazia e di un pezzo della sinistra democristiana».  Sempre secondo Salvati, il risultato è scoraggiante. E non può essere cambiato neppure facendo largo ai giovani: «Ho l’impressione che anche i giovani del Pd siano vecchi, che non abbiano nessuna autorevolezza, né il coraggio di fare analisi innovative. Questa situazione assomiglia molto all’epoca in cui la Thatcher andò al governo in Gran Bretagna e i laburisti non furono capaci di risalire la china per quasi vent’anni».  Basta questo elenco di guai per far morire un partito o spingerlo a chiudere bottega? Forse no. Ma i partiti di oggi non sono più i dinosauri corazzati della Prima Repubblica. Sono soggetti deboli. A cominciare dal Popolo della Libertà, dove ormai divampa la guerriglia interna, per il momento frenata dal successo nelle regionali. Certo, possono far finta di niente. Sulla base dell’antico motto andreottiano: “Tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia”.  Ma per ritornare al Pd, ogni minuto è prezioso. L’allarme rosso l’ha già suonato Massimo Cacciari: se non cambiamo tutto, siamo fottuti. Le strade per sopravvivere e rilanciarsi sono rimaste pochissime. La bottega può essere chiusa da chi oggi la conduce. Oppure può esserci una sollevazione interna, una rivolta soprattutto nordista, per ribaltare il potere centrale e mandarlo a casa. Se debbo dire la mia, ci spero poco. Forse i big democratici avrebbero bisogno di un aiutino. Per esempio, del cavalier Berlusconi. Che gli spieghi in che modo ha fatto lui a creare un partito dal niente.