L'editoriale

Eleonora Crisafulli

Suscitava quasi compassione l’altra sera Enrico Letta, vicesegretario del Pd, impegnato a spiegare l’inspiegabile, ovvero cosa deve fare il suo partito dopo la sconfitta delle Regionali. Le parole che gli uscivano di bocca erano le stesse usate per tutte le altre batoste elettorali. Bisogna costruire l’alternativa, dobbiamo aprirci, è necessario lavorare per allargare. Frasi fatte, inevitabilmente prive di significato. La verità è che invece di allargarsi il Partito democratico si sta rimpicciolendo. E lo ha spiegato cifre alla mano Stefano Ceccanti, parlamentare di sinistra, il quale ha documentato il numero di voti perso all’ultima tornata, lasciando nudo Bersani proprio mentre questi si affannava a sostenere che la botta non era poi tanto dura. La verità è che dopo aver perso un governo, le elezioni politiche, quelle in Abruzzo e Sardegna, aver cambiato due segretari e aver visto cadere per affari di letto il sindaco di Bologna, il Pd non sa più a che santo votarsi, anzi a che candidato offrirsi. Non solo non ha un programma, ma non ha nemmeno chi glielo scriva. Sono bastati sei mesi per liquidare il nuovo leader e all’orizzonte non se ne intravede uno adatto a sostituirlo, come spiega qui accanto Fausto Carioti. Veltroni chiede un lavoro per sé, Franceschini sogna di pensionare il suo successore, D’Alema vorrebbe tanto che lo togliessero dalla pensione in cui l’hanno confinato perché non faccia danni: una classe dirigente di ex. Il problema dentro ciò che resta del partito comunista e della sinistra dc è la mancanza di tempo per trovare una via d’uscita. Al contrario di ciò che dicono, il prossimo voto non è fra tre anni, ma fra uno. Passata l’estate infatti comincerà la campagna elettorale per rinnovare i sindaci di Milano, Genova, Torino e Napoli e tranne per  il capoluogo ligure, alla guida delle altre città il Pd non sa chi designare. Nella capitale lombarda, dopo aver preso in considerazione candidati a perdere come Tito Boeri e Sandro Bassetti ed essersi fatti dire da Bazoli di bocciare la nomina di Ferruccio De Bortoli, il partito sta meditando di indicare Umberto Ambrosoli, il più piccolo dei figli dell’avvocato fatto uccidere da Sindona: una scommessa azzardata su un non politico, come fu anni fa con l’ex prefetto Ferrante. In realtà, la ricerca affannosa di un nome che faccia breccia nella borghesia meneghina dimostra una sola cosa: che il Partito democratico non sa chi sono i suoi elettori e, dimenticate le sue origini, cerca di accreditarsi presso un elettorato che probabilmente esiste solo nella testa di alcuni dirigenti. Così si spiega come Filippo Penati, funzionario di partito rodato da anni di presidenza della Provincia, nella corsa per la Regione sia riuscito a prendere 678 mila voti in meno di quanti ne avesse presi cinque anni fa un perfetto sconosciuto come Riccardo Sarfatti, il quale perse contro Formigoni col 43 %, mentre Penati ha racimolato appena il 33. Vuoto pneumatico di candidati anche a Torino, dove Chiamparino non può rifare il sindaco per raggiunti limiti di legge. Le ultime notizie dicono che il Pd vorrebbe designare Evelina Christillin, una simpatica dama assai vicina a casa Agnelli. Immaginiamo l’entusiasmo degli operai della Fiat che votano per l’ex partito comunista: un modo perfetto per perdere, dopo la Regione, anche il Comune. Quanto a Napoli i vertici del Botteghino rosso si sono già rassegnati:  anche se riesumassero Berlinguer, sarebbero comunque sconfitti. Far dimenticare Bassolino e la Jervolino è impossibile. Se la forza della disperazione non fa venire qualche idea, l’unica alternativa che resta a Bersani e compagni è di chiudere bottega. Naturalmente, al canto di Avanti o popolo. Della borghesia.