L'editoriale

Eleonora Crisafulli

Avendolo dato per morto e sepolto, nessuno degli editorialisti di sinistra era convinto che Berlusconi sarebbe risorto a una settimana dalle elezioni. I più pensavano che dopo il pasticcio delle liste, il Cavaliere avrebbe faticato a risalire dalla tomba in cui lo davano i sondaggi e già prefiguravano una sconfitta secca. Dopo averla annunciata per anni, erano arcisicuri che la fine del berlusconismo fosse finalmente giunta. Invece la manifestazione di piazza San Giovanni ha cancellato le certezze e sabato pomeriggio sono stati costretti ad ammettere che quel diavolo di presidente del Consiglio ce l’aveva fatta ancora una volta, avendo il suo popolo aderito massicciamente all’appello da lui lanciato. Non potendo andare contro i numeri, che in ogni corteo, sono sempre ballerini, hanno dunque preferito fare un’operazione di separazione tra i manifestanti e il loro leader, come se fossero due realtà separate e non una sola. Eugenio Scalfari, ad esempio, nel suo sermone domenicale si è dilungato un bel quarto di colonna a riconoscere che la piazza era affollata da bella gente: persone con facce pulite, serene e allegre e non pericolosi militanti del Berlusca. Dopo di che però il fondatore di Repubblica ha riservato il resto della sua invettiva al premier, per dirne tutto il male possibile  e concludere che una piazza, sia pure affollata, non cambia la situazione politica. Il concetto della neutralità della folla di centrodestra rispetto alle scelte del Capo con la c maiuscola è stato ribadito anche da Concita De Gregorio, la quale sull’Unità ha spiegato come quella di San Giovanni fosse una sagra del sabato, con "lo zucchero filato incrociato a una devozione a prescindere: dicono sì e no a richiesta, non importa a cosa, è uno speciale sentimento fanatico, un’adorazione a scatola chiusa, un’adesione sordomuta che si aziona a comando e canta". La maestrina dalla penna rossa non delude mai: secondo lei le persone riunite in piazza a Roma erano poco più che marionette, azionate a distanza dal Cavaliere, il quale le faceva applaudire o urlare a suo piacimento: teleutenti felici, parrocchiani devoti che inconsapevolmente celebrano il piazzista, come lo chiama con disprezzo Lidia Ravera, maestrina con la penna ancor più rossa della prima. In fondo la tesi è sempre la stessa: il pifferaio di Arcore ha incantato tutti e li porta dove vuole, anche in piazza se serve. Chi lo segue è incolpevole, perché vittima di una magia che lo instupidisce e lo porta a compiere gesti inconsulti, come per esempio cantare "meno male che Silvio c’è". In pratica gli editorialisti che vent’anni fa non capirono la Lega e pensarono che fosse solo un fenomeno folkloristico e quindici anni fa risero del Cavaliere ritenendolo solo un pagliaccio della tv, oggi ancora faticano a comprendere quanto hanno davanti. Cioè che in Italia esiste un popolo di centrodestra che è maggioranza nel paese ed è un popolo che tutt’uno con i propri leader: si identifica con loro, li sostiene e li vota. A sinistra stentano a comprendere il sentimento di adesione dell’elettorato moderato, anche perché sessant’anni di fallimenti comunisti  hanno annientato ogni passione dell’elettorato progressita, rottamando qualsiasi leadership si si a affacciata. Del resto è difficile pensare che fra i sostenitori del Pd si possa assistere al tifo da stadio visto sabato in tv, con il premier costretto più volte a interrompere il proprio discorso al grido di "Silvio-Silvio". Ve lo immaginate un coro con "Pier Luigi-Pier Luigi"? Noi no.  Ma neanche chi vota Bersani.