L'editoriale
Le truppe violacee pronte a scendere in campo domani, oltre che con Berlusconi ce l’hanno con Napolitano, reo d’aver firmato un decreto il quale puntava a consentire a tutti gli italiani di votare. Dalle dichiarazioni di alcuni organizzatori della manifestazione listata a lutto par di capire che non risparmieranno al capo dello Stato neppure gli insulti: essersi fatto convincere dal premier a sottoscrivere un provvedimento che garantisse l’esercizio di un diritto, ai loro occhi è una colpa incancellabile, soprattutto se commessa da un uomo il quale nella sinistra ha compiuto tutta la sua lunga carriera. Fa nulla se fino all’altro giorno i contestatori di oggi sostenevano l’infallibilità del Quirinale: da oggi il dogma non vale più. Le avvisaglie del trattamento che si preparano a riservare a Napolitano sono state anticipate dai giornali cari alla sinistra. Dalle pagine del quotidiano diretto da Ezio Mauro, Carlo Azeglio Ciampi ha usato senza risparmiarsi tutto il veleno accumulato in anni di astinenza dal Colle. Fingendo di voler difendere l’istituzione più alta, il nonno della Repubblica ha accusato infatti chi ha preso il suo posto di essere sprovvisto di attributi e di aver ceduto all’odiato Cavaliere. In pratica rimprovera al presidente una mancanza di coraggio, ricordando i bei tempi passati quando lui rifiutò la firma di alcune leggi che gli furono presentate dal governo di centrodestra. La perfidia dell’ex arriva al punto di far capire che c’è bisogno di proteggere Napolitano, quasi fosse da mettere sotto tutela. Il Ciampi che gonfia il petto e fa la ruota contro il decreto salva-liste, è lo stesso che dieci anni fa, quando stava al Quirinale, s’affrettò a sottoscrivere un provvedimento d’urgenza salva-banche. A Palazzo Chigi ovviamente non c’era il Cavaliere, ma Giuliano Amato, e il ministro della giustizia non era Angelino Alfano ma nientemeno che Piero Fassino: la Cassazione aveva appena sentenziato che gli istituti di credito s’erano fregati un bel po’ di interessi sui mutui, a danno dei propri clienti, e per ciò li aveva condannati alla restituzione del maltolto, una cifra stimata fra i 15 e i 40 mila miliardi di vecchie lire, tra i 7 e i 20 miliardi di oggi. Per impedire il rimborso alle famiglie tartassate in pochi giorni fu fatto il decreto e Ciampi sottoscrisse senza turbamento. Insomma, se c’è da garantire il diritto di voto agli italiani, il presidente emerito parla di «aberrante episodio di torsione del sistema democratico», mentre quando c’è da fare un piacere agli istituti di credito in danno dei soliti italiani per il presidente tacchino «è un fulgido esempio di esercizio democratico». Ma per dare addosso a Napolitano oltre agli ex Capi di stato tutt’ora in servizio si usano anche quelli defunti. Per l’occasione è stato infatti riesumato Sandro Pertini, la cui effigie comparirà sulle magliette viola in uso durante la manifestazione, con l’aggiunta di un indebito slogan: lui non avrebbe firmato. Peccato che il presidente partigiano sia famoso per la sottoscrizione del decreto considerato madre di tutti i mali, ovvero quello che riaccese le tv di Berlusconi, cancellando addirittura tre sentenze di altrettanti pretori che ordinavano la sospensione delle trasmissioni sul territorio nazionale. La storia risale al 1984, quando i giudici di Roma, Torino e Pescara spensero i ripetitori che consentivano a Canale 5, Rete 4 e Italia 1 di diffondere i programmi in tutta Italia. Bettino Craxi ci mise tre giorni a ordinare per decreto la ripresa della programmazione e il capo dello Stato controfirmò. Che Pertini non nutrisse dubbi sul provvedimento è certo, perché essendo stato poi affossato in Parlamento, Craxi fu costretto a ripresentarlo e il presidente sottoscrisse nuovamente. Non una dunque, ma due volte fu posta l’autentica quirinalizia. Quelli però erano altri tempi. Non c’erano né Di Pietro, né Travaglio: due che Pertini avrebbe saputo come trattare. Rispettando la democrazia, ovviamente.