L'editoriale
Quello che segue non è un editoriale, ma il resoconto di una telefonata che ho ricevuto ieri. Vi chiedete che bisogno c’è di dedicare un articolo in prima pagina a una conversazione privata? La risposta sta nel nome di chi mi ha chiamato: Massimo Ciancimino, ultimo testimone messo in campo dalle Procure siciliane per incastrare Silvio Berlusconi con gli affari di mafia. Ciò che il figlio dell’ex sindaco di Palermo ha raccontato pochi giorni fa nelle aule di giustizia è noto: Dell’Utri sarebbe subentrato al papà mafioso nei rapporti con Cosa nostra, Forza Italia sarebbe nata con l’aiuto dei picciotti di Provenzano e Milano due, opera prima del Cavaliere, l’avrebbe finanziata direttamente la Piovra. Ciò che non si sa è che Ciancimino è pronto a rimangiarsi tutto. «Io non ho mai detto che Berlusconi è mafioso», mi ha giurato ieri mattina al telefono, «e appena avrò finito di deporre in tribunale lo spiegherò meglio». All’inizio ho pensato d’esser vittima di uno scherzo, ma poi mi sono reso conto che al telefono c’era proprio lui, il figlio piccolo di don Vito, ovvero l’erede non solo politico di chi consegnò Palermo a Cosa nostra favorendo il sacco della città. Mentre mi domandavo se fosse l’originale o un imitatore, Ciancimino mi ha spiegato che i giornali hanno interpretato male le sue parole e gli hanno fatto dire cose che lui nemmeno avrebbe pensato: «Mi sono limitato a riferire che i boss erano favorevoli alla nascita di Forza Italia e puntavano sul nuovo partito. Qualcuno sperava che rappresentasse la soluzione dei problemi, ma così non è stato. Anzi, è stata l’ennesima scommessa fallita, come già era accaduto con il Psi. Tra Berlusconi e la mafia non c’è stato alcun collegamento diretto, forse qualcuno intorno a lui ha avuto contatti, ma lui no». Lasciamo perdere lo scaricabarile sui colleghi: è un classico, quando c’è bisogno di far retromarcia si dice che i giornalisti hanno capito male; fa niente se esiste la registrazione audio-video: la scusa funziona sempre. Il problema non è se Ciancimino quelle cose sul presidente del Consiglio le ha dette e poi si è pentito. Il problema è il gioco che intorno alle sue dichiarazioni è stato costruito. È attendibile Ciancimino? È una persona da prendere sul serio oppure con le molle? Ciò che ieri mi ha detto al telefono, e che ha pure ripetuto su un post del colonnello di Forza Italia Gianfranco Micciché, è la verità oppure l’ennesima versione pronta ad essere smentita appena serve? Ciancimino è un teste usato dalla Procura oppure è lui che usa la Procura? Soprattutto viene da chiedersi perché prima di produrre testi in un’aula di tribunale, i magistrati non ne verifichino l’attendibilità. Che fretta c’era di portare il giovane Ciancimino di fronte ai giudici e alle telecamere? Non si poteva in silenzio stabilire se le sue dichiarazioni sono fondate prima di farlo salire sul banco dei testimoni? Dopo la giravolta queste domande sono infatti più che legittime, perché non si riesce a capire più il senso di quel che sta accadendo. O meglio, lo si capisce eccome. Visto che le prove scarseggiano e che trascinare il premier di fronte alla Corte non si può perché neanche un gip compagno lo rinvierebbe a giudizio con questi elementi, il processo lo si fa sui giornali. Basta qualche testimone farlocco come Spatuzza oppure un tipo come Ciancimino è il gioco è fatto: una goccia dopo l’altra e alla fine qualcosa nella testa della gente rimane. Per dirla alla siciliana, se non si riesce a condannare il Cavaliere, si può sempre mascariare. Al dunque, anche se questo non piace a gran parte del centrodestra, sarà meglio porre mano alla legge sui pentiti come ha proposto un ex deputato di An. Non per vietare che i collaboratori di giustizia parlino, ma almeno per impedire che straparlino.