L'editoriale
Anni fa mi capitò d’inciampare in quello che i cronisti esordienti sognano più di una vincita al Superenalotto: uno scoop. Durante una cena a Roma, in una bella casa dei Parioli, il presidente emerito della Corte costituzionale mi rivelò che l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro aveva fatto bocciare dai giudici della consulta un referendum. Il racconto – se confermato – avrebbe dimostrato che la vergine inviolata che all’epoca risiedeva al Quirinale s’era in realtà preso gioco di tutti: del popolo sovrano innanzitutto, dell’autonomia della magistratura in second’ordine, infine della Costituzione, con cui amava e ama riempirsi la bocca. Della nostra carta fondativa, che attribuisce ai cittadini il potere supremo di esprimersi, il signor presidente della Repubblica aveva fatto carta straccia. Sul Tempo, che allora dirigevo, raccontai ovviamente la faccenda nei dettagli, senza risparmiare i nomi degli alti magistrati che si erano prestati al gioco di Scalfaro e aggiungendo che il presidente era intervenuto su pressione di un generale della Finanza. Fossimo stati ai tempi in cui Eugenio Scalfari dirigeva l’Espresso, l’indomani probabilmente il settimanale di sinistra sarebbe andato in edicola con una delle sue formidabili copertine sul golpe. Gli ingredienti c’erano tutti: i militari, il Quirinale e pure il raggiro della volontà popolare. Di sicuro c’erano gli elementi per una bella inchiesta della Procura, con tanto di ipotesi di vilipendio del capo dello stato (a carico mio e dell’ex presidente della Consulta), sempre che il magistrato non trovasse la voglia di indagare il campanaro per attentato alla Costituzione. Invece non successe assolutamente nulla. Nonostante la vicenda fosse diventata di pubblico dominio, i pm non mossero un mignolo e lasciarono che una cappa di piombo ricoprisse l’intera storia, consentendo al pio Oscar di continuare a recitare la parte del difensore della democrazia. Vi state domandando perché vi parli di una vicenda nota a molti? Tranquilli, sono abbastanza vecchio per averne viste tante ma non troppo per indulgere ai ricordi e raccontarvi sempre la stessa storia come fanno certi nonni. Semplicemente cito il caso per spiegare che da tempo non credo all’obbligatorietà dell’azione penale. Il principio con cui i magistrati giustificano l’apertura di qualsiasi indagine, anche della più strampalata, in realtà è usato a discrezione delle stesse toghe. Se c’è di mezzo il cugino di terzo grado di Berlusconi non si risparmiano i mezzi indispensabili ad appurare la verità, se c’è qualcuno che amico dell’amico si trova invece una scappatoia per evitare l’indagine oppure per dimenticarsela sul fondo di un cassetto. Dunque non mi stupisce che a distanza di giorni dalla pubblicazione della notizia dell’esistenza di un sistema di spionaggio dei dipendenti della Coop lombardia nessuno si sia fatto vivo. Né un pm, né un sottufficiale di polizia giudiziaria ha bussato alla nostra porta. Da martedì Libero pubblica notizie di intercettazioni e di registrazioni video che dimostrano la violazione di qualsiasi norma sulla privacy oltre che l’esistenza di un’organizzazione specializzata in attività illecite, eppure non c’è magistrato che senta il dovere, o anche soltanto abbia la curiosità, di ficcare il naso in questa faccenda. Non si capisce a questo punto perché si siano agitati tanto per Tavaroli e compagni quando questi si limitarono a raccogliere i tabulati telefonici di alcuni dipendenti della Telecom. Come abbiamo dimostrato ieri pubblicando le trascrizioni di alcune telefonate, alla Coop non si sono limitati ad annotare chi parlava con chi. Hanno fatto di peggio, intercettando conversazioni con microspie disseminate nei supermercati e piazzando telecamere ovunque, con cui hanno ripreso ignari impiegati Coop. A che scopo? Questa è la domanda che continuiamo a fare, ma a cui nessuna autorità sente l’obbligo di dover rispondere. Ma il silenzio e l’inattività non riusciranno a farci desistere. E promettiamo che continueremo a raccontare tutto ciò di cui verremo a conoscenza a proposito di questo caso. Oltre al comportamento della magistratura e agli inquirenti, degno di commento è anche l’atteggiamento della cosiddetta stampa libera, sempre pronta a mobilitare gli indignati speciali per ogni sospiro del Cavaliere o di qualsiasi persona sia riconducibile al centrodestra. Come mai in questo caso non sente l’obbligo di riferire i fatti? Forse perché c’è di mezzo un importante cliente pubblicitario come la Coop, oppure perché molti degli uomini che fanno da contorno alla vicenda molti sono riconducibili al Pd, al punto che perfino il segretario del partito, Bersani, era stato informato? E’ una domanda che per ora non ha risposta, ma che serberò alla prima occasione, quando la “Libera stampa” organizzerà un’altra manifestazione in difesa della libera stampa.