L'editoriale
Bersani chiude al Cav e ci condanna al bis tecnico
di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Il nuovo Parlamento non si insedierà prima della fine della prossima settimana e poi, tra le prime cose da fare, gli onorevoli dovranno nominare i presidenti di Camera e Senato oltre che i vertici delle diverse commissioni. Ammesso che tutto proceda senza intoppi, cioè che si voti in fretta chi si deve votare, prima del pomeriggio di martedì 19 marzo non si parlerà dunque del governo che dovrà subentrare a quello di Mario Monti. Da qui a quella data quindi si continuerà a giocare, costruendo maggioranze impossibili da realizzarsi o sostenendo strategie che tutti sanno poi destinate ad essere smentite dalla realtà. È per questo che non bisogna dare alcun peso a quello che ieri è stato deciso dalla direzione del Partito Democratico. In quella sede non si è detto nulla di nuovo né di interessante. Gli otto punti enunciati dal segretario sono otto punti di niente, perché - pur essendo un programma ritagliato su misura per accontentare i grillini - si sa che una maggioranza con il Movimento Cinque stelle non sarà possibile. Se Grillo accettasse, infatti, si suiciderebbe ancor prima di aver varcato il portone di Montecitorio. E invece il comico preferisce che a suicidarsi sia lo stesso Bersani. Ed è quello che succederà. Insistendo sulla linea di chiusura nei confronti del Popolo della libertà, impedendo l’unica soluzione possibile alla crisi, Pier Luigi si sta spianando la strada per uscire di scena. E ben volentieri molti suoi compagni ieri gli hanno dato una mano a raggiungere l’obiettivo, soprattutto quelli che il segretario, con il contributo di Matteo Renzi, era riuscito a pensionare. Non a caso alla direzione del partito si sono fatti notare alcuni dei big rottamati, da Veltroni a D’Alema. E non a caso la maggioranza dei convenuti ha espresso sostegno alla linea del leader: sapendola irrealizzabile, la direzione del partito ha sospinto nella fossa il suo segretario, archiviandone la leadership dopo l’insuccesso elettorale. Quando infatti Bersani salirà al Colle per partecipare alle consultazioni, enunciando la sua linea a favore dell’intesa con il Movimento Cinque stelle, forse riuscirà a convincere Giorgio Napolitano, facendosi affidare un mandato esplorativo, ma molto difficilmente riuscirà a convincere Grillo a votare la fiducia al suo governo e dunque dovrà tornare al Quirinale con la coda fra le gambe. Quello sarà molto probabilmente il suo ultimo atto, da candidato premier e da segretario del Pd, perché subito dopo i compagni che ieri hanno accordato sostegno alla sua linea gli presenteranno il conto. Fin qui Bersani, delle cui sorti potrebbe in fondo importarci poco o nulla. Se non fosse che le mosse del leader della sinistra in qualche modo influiranno su ciò che verrà dopo. Già, perché rifiutando di fare l’unica cosa saggia e sensata, cioè un’intesa con il Pdl, il segretario del Partito Democratico ci condanna a un altro governo tecnico. Probabilmente non verrà chiamato in tal modo, perché è ancora fresco il ricordo dell’esecutivo di Mario Monti, e dunque sul Colle si escogiteranno locuzioni diverse, tipo governo di scopo o del presidente. Ma anche cambiandogli nome, la soluzione rimane la stessa: in luogo di un governo regolare, se ne fa uno irregolare per tirare a campare, con dentro un po’ di professori. Essendosi scottato le penne alle elezioni, con una improvvisa salita in campo, il prescelto per l’incarico non dovrebbe essere l’ex rettore della Bocconi, ma a guidare l’esecutivo potrebbe essere l’ex ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, oppure qualche altro docente in pensione tipo Stefano Rodotà. Obiettivo, fare la stessa cosa che Bersani non vuole, cioè un esecutivo di larga intesa, cui affidare come compito la riforma della legge elettorale e l’ordinaria amministrazione. In attesa poi di tornare alle urne, spendendo altri 400 milioni per chiedere agli italiani da chi vogliono essere governati. Nella speranza che in capo a qualche mese, alcuni di loro abbiano cambiato idea e invece di disperdere i voti scegliendo Grillo, Ingroia o Monti, mettano la crocetta sul simbolo del Pd. Con un candidato premier che non si chiama Bersani, ma, magari, Renzi. Ammesso - e non concesso - che riesca a superare i trabocchetti disseminati dai suoi stessi compagni sul cammino. Evitando il bacio della morte che alcuni giornali, fino a ieri bersaniani ma già pronti a trasformarsi in renziani, gli vogliono dare.